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dimanche, 27 mars 2016

L'Equinozio di Primavera e gli Dèi di Roma

 
Paolo Galiano
Ex: http://www.ereticamente.net

Il mese di Marzo costituisce il momento della generazione della potenza di Roma per mezzo di una serie di celebrazioni aventi il carattere specifico del rinnovamento, a cominciare dal sacro Fuoco di Vesta, simbolo del rapporto sacrificale perenne tra Roma e i suoi Dèi, che nel primo giorno del mese veniva ritualmente spento e riacceso. Il rinnovamento è celebrato nel nome di due divinità, il maschio Mars e la femmina Juno-Minerva, i due aspetti della donna come Vergine e come Madre: la duplice polarità di Marzo si realizza nella nascita iniziatica dei giovani, maschi e femmine, che nel successivo mese di Giugno si uniranno in matrimonio per proseguire l’eterna realtà di Roma nel tempo dei secoli futuri e nello spazio dell’espansione della sua civiltà ai popoli dell’area mediterranea.

La ri-nascita dell’Urbe ha il suo centro nella presenza in questo mese dell’Equinozio di Primavera, evento astronomico (e non solo) che i Romani nel tempo arcaico facevano cadere nel mese di Marzo, inserendo, se fosse stato necessario, un mese aggiuntivo (Interkalaris o Mercedonius) affinché Equinozio e mese di Marzo coincidessero, in quanto il primo giorno di Marzo era l’originario Capodanno di Roma (giorno che forse in un’età più arcaica cadeva il 21 Aprile). La connessione tra Marzo, mese dei giovani che entrano con l’iniziazione nella societas romana, ed Equinozio di Primavera, rifiorire della terra e sopravanzare delle ore di luce su quelle oscure della notte, rende intuitivo perché sia questa la data scelta da un punto di vista astronomico ma soprattutto sapienziale come inizio del Nuovo Anno.

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

Alle due divinità principali, Mars e Juno-Minerva, protettrici rispettivamente dell’iniziazione dei maschi e delle femmine, si associano divinità connesse all’abbondanza (Consus e Anna Perenna) e riti di allontanamento del “vecchio” (i Mamuralia) o di commemorazione degli antichi (gli Argei, compagni di Ercole). L’aspetto direttamente connesso alla generazione sul piano materiale lo si ritrova nella cerimonia degli Equirria, dedicati a Consus in ricordo del ratto delle Sabine mediante cui ebbe inizio la procreazione in Roma, e in quella di Anna Perenna, la quale cadeva alle Eidus, solitamente dedicate a Juppiter, celebrazione del ciclo annuale che si rinnova (Anna Perenna è chiaramente la “perennità”).

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GIUNONE E MINERVA, IL POLO FEMMINILE DI MARZO

Qui ci limiteremo ad esaminare le figure, molto complesse, di Juno-Minerva e di Mars[1], e precisiamo subito che scriviamo “Juno-Minerva” perché la Juno italica non ha nulla a che vedere con la greca Hera, alla quale venne più tardi assimilata: nel mondo latino la Dèa si presenta con attributi analoghi a quelli di Minerva, come vediamo nella statua della Juno Sospita (Salvatrice) di Lanuvio, divinità preromana vestita con i calcei repandi, calzature a punta rialzata che De Francisci fa risalire alle culture egeo-antoliche[2] e armata con la lancia e l’ancile, lo scudo bilobato dei Saliares di Mars, coperta da una pelle di capro[3] (la nebrys). Nella Roma arcaica essa non era la paredra di Juppiter, ma una divinità guerriera protettrice della città e dei suoi abitanti, e presiedeva alle iniziazioni delle adolescenti nel suo tempio di Lanuvio; ad essa i Romani dedicarono le Kalendae di Febbraio, affidando alla classe dei Cavalieri il ruolo di suoi sacerdoti, proprio per le caratteristiche di “protettori dell’Urbe” proprie a questi guerrieri come si può constatare nelle loro cerimonie dell’Equinozio di Autunno. Tutto ciò la rende analoga alla Minerva Tritonia di Lavinio, anch’essa vestita con la pelle caprina e armata di lancia e scudo ed anch’essa protettrice del passaggio rituale delle giovani donne nella città fondata da Enea.

Come Juno e Minerva sono collegate all’iniziazione femminile, così lo è Mars per i maschi, i quali, probabilmente dopo un primo rituale a cui erano stati sottoposti a Febbraio nel corso dei Lupercalia, ora a Marzo entravano a tutti gli effetti nella societas romana come guerrieri nel corso delle cerimonie dei Saliares.

La Juno celebrata alle Kalendae di Marzo era la Juno Lucina (protettrice dei parti ma anche Dèa della luce) o Matrona (l’attributo deriva dalla stessa radice *mas affine a Mars e alla parola maschio); il suo nome è etimologicamente collegato a juventas in quanto protettrice delle giovani fanciulle, alle quali era propria la juno, così come al maschio il genius, e come questi si connette con la gens, poiché il maschio prolunga nel tempo la sua gens dando il proprio nomen al figlio, la juno è in rapporto con la juventas, in quanto solo la donna giovane può procreare. Nella concezione romana la procreazione è per la donna quello che per gli uomini è la guerra, lo scopo della propria esistenza, ed è per questo motivo che Juno e Mars sono venerati nello stesso mese.

Ad essa erano dedicati i Matronalia; la Dèa era venerata in un tempio sull’Esquilino, nella zona di via in Selci presso l’attuale chiesa di San Francesco di Paola, e il tempio, già esistente nel 375 a.C., sarebbe stato dedicato dalle matrone a seguito di un voto fatto da una di esse in occasione del proprio parto. Il suo tempio sorgeva in un bosco sacro alla Dèa ma sicuramente più antico di esso, tanto che Plinio[4] riteneva che il nome di Lucina fosse derivato da lucus e non da lux; qui si trovava la sacra lotus, pianta che ritroviamo nei riti di Vesta, quando la nuova sacerdotessa scelta dal Pontefice Massimo tagliava i suoi capelli e li appendeva alla lotus capillata nell’Atrium Vestae. Il nome Lucina si può comunque collegare a luce, con il significato di “dare alla luce”, ed è nel lucus di questo tempio che venne dato l’oracolo alle donne sabine sterili: “Le italiche madri siano penetrate dal capro[5], che è alla base del rituale fecondatore dei Lupercalia.

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

Moneta con immagine della Juno Sospita di Lanuvium armata con lancia e ancile e accompagnata dal sacro serpente (denario di Lucio Procilio 80 a.C.).

La celebrazione di Juno Lucina era tenuta nei Matronalia, festa in cui le matrone portavano offerte alla Dèa per propiziarsi una gravidanza felice; in questo giorno si attuava uno scambio di ruoli tra matrone e servi, come nei Saturnalia di Dicembre tra i padroni e i loro servitori, per cui erano le matrone a servire a tavola i loro schiavi, come scrive Macrobio[6]: “Le matrone servivano la cena agli schiavi, come fanno i padroni durante i Saturnali: quelle per incitare all’inizio dell’anno con questo onore gli schiavi a pronta obbedienza, questi come per ringraziarli del lavoro compiuto”.

botticelli_minerva_restrains_c.jpgMinerva aveva la sua festa nel giorno delle Quinquatrus, giorno che cadeva, come dice il nome, il quinto giorno oscuro dopo le Eidus: il giorno era in origine sicuramente dedicato a Mars, dato che in esso i Saliari celebravano uno dei loro riti, ma venne in seguito “usurpato” da Minerva, certo in coincidenza con la sovrapposizione della Triade etrusca Juppiter-Juno-Minerva all’arcaica Triade Juppiter -Mars-Quirinus.

Viene spontaneo chiedersi: perché sostituire Mars con Minerva? L’innamoramento di Mars per Minerva tramandato nella nota leggenda di Anna Perenna è chiaramente un mito tardivo di epoca repubblicana e di origine greca, mentre Minerva si trova in origine collegata a Mars per altri motivi, in quanto è a loro due, insieme ad altre divinità, che vengono offerte in sacrificio le armi degli eserciti sconfitti[7]. Ecco perché Minerva è chiamata anche coniunx di Mars, lei che, essendo vergine, non può essere sposa di nessuno, ed il mito di Anna Perenna e Mars conferma come tra le due divinità non sia intercorso alcun rapporto sessuale.

- Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

– Disegno pubblicato da Lenormant di un vaso andato perduto con Mars, Minerva e la Vittoria alata (Lenormant Élite de monuments ceramographiques, vol. IV tav. XCV): Mars è la figura del giovane iniziato che riceve le armi da Minerva e viene lustrato dalla Victoria in forma androgine.

Forse originariamente Minerva era non una Dèa ma una “qualità divina”, tanto che dopo l’affermazione della nuova Triade, come osserva Carandini[8], mentre a Juppiter vennero dedicate le Eidus e a Juno le Kalendae, a Minerva non vennero dedicate le Nonae, come ci si aspetterebbe per quella simmetria fondamentale anche sul piano religioso per i Romani. Questa “qualità divina” potrebbe trovarsi nella connessione del suo nome con una serie di radici affini, da cui vengono parole aventi relazione con la Dèa, quali mensis[9] dalla radice *men(e)s, mensura da *mē, da cui derivano le parole indoeuropee indicanti misura, mentre *men è all’origine dei termini indicanti memoria, ricordare, lat. memini, e da *menu deriva uomo come “uomo pensante”[10]. Il carattere precipuo di Minerva sembra quindi essere quello della “misurazione” collegata all’idea di “uomo pensante”: uomo capace di organizzare tramite la misura e di ricordare tramite la memoria.

Minerva è la Dèa ordinatrice che dà una struttura armonica ed equilibrata al cosmo, e questa sua funzione ordinatrice è realizzazione della potenza divina sul piano della creazione come su quello umano, dove senza memoria e intelletto non è possibile comprendere e seguire il volere divino espresso negli auspicia. Sul piano divino collabora con Juppiter in quanto consente l’attuazione della volontà del Dio supremo dando ordine al mondo, sul piano umano è il principio che porta gli uomini alla creazione di una societas equilibrata nelle sue componenti e in particolare, per quanto riguarda il mese di Marzo, agisce con Mars nel rito iniziatico con il quale il giovane si realizza come guerriero.

Segno della sua azione ordinatrice è anche la funzione come protettrice degli artigiani e dei pedagoghi (i quali in questo mese ricevevano il minerval, il loro salario o un dono da parte degli studenti), cioè coloro che collaborano al perfezionamento del cosmo, abbellendolo sul piano fisico con le loro opere e arricchendo le potenzialità dei giovani per mezzo dell’insegnamento.

Se Mars è l’archetipo del Re-guerriero, padre di Re e di guerrieri come Romolo, Minerva è la Dèa della misura e dell’ordine che derivano sul piano politico dall’organizzazione civile che ha al suo àpice il Re; sul piano iniziatico Minerva dà al giovane che accede all’iniziazione quell’ordine interiore che è necessario per temperare la furia guerriera indirizzandola ad un livello superiore.

La presenza di Juno alle Kalendae di Mars e la sovrapposizione di Minerva nelle Quinquatrus, in origine proprie a Mars, inducono ad una riflessione: vi possiamo vedere una sorta di progressiva invasione del femminile nell’area che fino allora era stata esclusivamente riservata a Dèi maschili e coincidente con il momento in cui la più antica Triade, costituita da Juppiter, Mars e Quirinus, si avvia alla scomparsa con la sostituzione degli ultimi due da parte di Juno e Minerva, sotto l’influsso etruschizzante della dinastia dei Tarquini, i quali cercarono di sovrapporre le loro divinità a quelle romane. La resistenza opposta nel corso della costruzione del tempio a Juppiter sul Campidoglio da due divinità, Terminus e Juventas, per non essere spostate dall’area in cui il nuovo tempio sarebbe sorto può essere anche il segno dell’opposizione del patriziato romano al piano religioso dei Re etruschi; fu necessario far spazio al tempietto di Juventas nella cella di Juno, mentre per Terminus, che aveva un altare-stele a cielo aperto, si dovette praticare un’apertura nel tetto della cella di Juppiter, perché mantenesse il suo carattere di templum sub divo. Si ha anche notizia di un tempio di Mars che esisteva già sul Campidoglio[11] e che venne non a caso raso al suolo per far posto alla nuova Triade.

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MARS, Il POLO MASCHILE DI MARZO

Mars, a cui è intitolato il mese, non è il signore della guerra, come venne concepito dopo la sua identificazione con l’Ares greco, ma ha le caratteristiche di un Dio connesso con la tutela dell’Ordine sia per mezzo della guerra offensiva, sia con la protezione di ciò che è generato, la città di Roma, i giovani, i campi che iniziano a germogliare, e per questo motivo presiede al ver sacrum, l’emigrazione di una generazione di uomini e di animali consacrati dalla nascita a tale compito.

Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare.

Minerva Tritonia di Lavinium, statua in terracotta del V sec. a.C. ora esposta al Museo di Pratica di Mare.

Alcuni aspetti etimologici del suo nome fanno pensare che in origine egli fosse non un Dio guerriero ma piuttosto un Dio celeste: se in osco il suo nome è Mamers e forse in sabino Marmar (se è sabino il Dio presente nei Carmina dei Fratres Arvales), le varianti italiche del suo nome sono tutte derivate da una radice *Mauort-, alla quale è stato avvicinato il vedico Marut, nome della collettività dei compagni guerrieri di Indra, ma è possibile anche risalire ad una radice *mar, in relazione con il sanscrito marikis, lucente[12], per cui Mars sarebbe “il Dio splendente”, quindi una divinità avente carattere solare e celeste, e d’altronde il Carmen Saliare, se il verso è riferito a Mars, gli attribuisce il tuono e lo chiama “Dio della luce”[13], titoli solitamente propri di Juppiter, rispetto al quale Mars sembra essere precedente.

Il Dio, quando divenne iconico (probabilmente in origine era rappresentato solo dalla lancia sacra sia a Roma che in altre città latine), era rappresentato in armi con un copricapo costituito da un elmo ornato di due penne, secondo la testimonianza di Valerio Massimo e di Virgilio[14]. Suoi animali sacri erano il picchio e il lupo, il cui aspetto umano era rappresentato da suo figlio Pico, Re degli Aborigeni e fondatore di Alba, e da Fauno, figlio di Pico e quindi nipote di Mars.

Mars è una figura complessa che si può ricostruire solo eliminando l’aspetto meramente guerriero che è divenuto il suo attributo a causa della interpretatio greca: è, come abbiamo detto, il Dio che tutela l’ordine, se necessario anche con le armi, proteggendo l’esterno della città come i campi dei suoi cittadini, allontanando ciò che si contrappone all’ordine di Roma, i nemici umani ma anche le forze psichiche negative o comunque pericolose.

Questo lo si vede nella sua qualità di custode dei confini dei campi e dei possedimenti dell’agricoltore nel sacrificio privato del suovetaurilia, un toro, un ariete e un porco (offerta in origine esclusiva di questo Dio), funzione nella quale è chiamato a tenere lontano le intemperie e le malattie dai campi e dagli animali, e non a garantirne la fecondità e la crescita, perché queste sono azioni richieste ad altre divinità esclusivamente agricole. La cerimonia purificatoria dei campi degli Ambarvalia aveva il corrispondente a livello sociale nella lustratio quinquennale dei cives riuniti come milites nel Campo Marzio: attorno ai cives inquadrati militarmente veniva fatta girare l’offerta dei suovetaurilia, i quali erano poi sacrificati per ringraziare il Dio della protezione accordata nei cinque anni trascorsi. La cittadinanza come esercito ed i campi della città sono protetti intorno al perimetro da Mars in armi: “Tutta la sua funzione si esercita sulla periferia: indifferente alla natura di ciò che la sua vigilanza protegge, egli è la sentinella che opera al limite, sulla frontiera, ed arresta il nemico[15].

La “perifericità” di Mars è evidente nella dislocazione dei suoi templi, eretti al di fuori del pomerium, dall’arcaica ara del Campo Marzio al grande tempio fuori Porta Capena, ove si riuniva l’esercito prima di muoversi per le imprese di guerra e da cui partiva la Transvectio Equitum, la parata dei Cavalieri di Roma.

Altro aspetto di Mars è la sua tutela sul ver sacrum, l’emigrazione dei giovani e degli animali di una città nati nell’anno in cui un grave evento aveva turbato l’ordine della nazione: la consacrazione di un’intera generazione è posta sotto la sua vigilanza affinché giunga senza pericolo alla mèta che la volontà divina le ha assegnato; l’“emigrazione” di Romolo e Remo da Alba potrebbe configurarsi come un ver sacrum, così come quello che in precedenza aveva condotto gli Aborigeni dai loro territori originari di Amiternum, Reate e Interamna in Sabina verso il luogo dove sorgerà Roma, sostituendosi ai Siculi intorno al XIII sec. a.C.

Mars era il Dio dell’iniziazione degli adolescenti, i quali a Marzo entravano nella societas romana assumendo nel giorno dei Liberalia la toga virilis sotto la protezione di Liber, che in origine nulla aveva a che vedere con il greco Diònisos, né tanto meno con una triade Ceres-Liber-Libera formata sui Misteri Eleusini. A Mars spetta invece l’iniziazione specifica del guerriero[16], illustrata dal ludus Troiae nel “vaso di Tragliatella”[17], nonché da particolari rituali raffigurati su vasi o specchi etruschi incisi e da una cista proveniente da Palestrina, ritrovamenti studiati da Dumézil[18] e da Torelli[19], in cui Mars, a volte triplicato in tre figure di bambini o di giovani, è seduto su un grande vaso o estratto da esso o bagnato con il liquido versato da Minerva o da una Vittoria alata, raffigurazioni così commentate da Dumézil: “Le scene considerate rappresentano probabilmente le cerimonie dell’iniziazione (o delle iniziazioni successive) del guerriero-tipo di Mars, in virtù delle quali egli deve acquistare ciò che d’ordinario si acquista in tal modo: invulnerabilità o infallibilità del colpo o furor”.

L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae.

L’oinochoe di Tragliatella (Caere 620 a.C. circa): i disegni sono interpretati come scene dell’iniziazione dei giovani nel corso del Ludus Troiae.

Lungo tutto il mese di Marzo si esplica l’azione rituale dei Sacerdotes Saliares (a cui corrispondevano probabilmente le poco conosciute Virgines Saliares sul piano femminile), i sacerdoti portatori dei dodici ancili, i sacri scudi bilobati tra i quali era nascosto uno dei sette Pignora della potenza di Roma. Il fatto che l’origine della loro danza fosse fatta risalire ad Enea riporta la fondazione del loro sodalizio ad una remota antichità, in cui la Grecia micenea e il mondo latino, e Roma in particolare, erano tra loro in rapporto culturale e commerciale[20], per la funzione di crocevia che fin da tempi antichissimi ebbe l’Urbe, situata com’era al punto d’incontro tra la strada che dall’Appennino portava le greggi al mare e la via fluviale che dalle saline di Ostia conduceva verso l’Etruria e che trovava un eccellente approdo proprio alle falde del Palatino.

Un discorso sui Saliares e sulle loro Virgines sarebbe troppo lungo da farsi in un articolo, per cui rimandiamo ai testi citati in nota[21] chi volesse approfondirne il rituale e il significato.

SI APRE UN CICLO?

Potremmo a questo punto concludere che con l’Equinozio di Primavera si apre il ciclo dell’anno, ma sarebbe un errore, perché un circolo non ha inizio né fine e solo l’uomo, per le sue necessità materiali, segna con un Capodanno il principio del tempo, dimenticando che ciò non è possibile. È per questo errore di prospettiva, insito nella sua componente terrena, che l’uomo si è costruito il mito del “progresso”, che è solo un’apparenza e non una realtà, perché il tempo non si muove lungo una retta. In realtà i tempi dell’anno nel loro succedersi l’uno all’altro portano ciascuno in sé il tempo precedente e contengono i germi del tempo successivo, in un circolo (o meglio in una spirale) che non ha inizio né fine.

Se vediamo nel suo insieme i quattro tempi dell’anno nella concezione religiosa e sapienziale di Roma, ci accorgiamo come questo sia vero: con il Solstizio d’Inverno ha inizio l’Età dell’Oro di Saturnus che porta a compimento attraverso un ritorno all’Inizio il potere di Juppiter affermatosi nell’Equinozio d’Autunno. ma nell’oscurità della morte apparente del Sole vi è il germe della rinascita di Primavera; all’Equinozio di Primavera si raggiunge l’equilibrio del maschile e del femminile nella polarità di Mars e Juno-Minerva prefigurata nel Solstizio d’Inverno da Saturno e da Bona Dèa, equilibrio che contiene il sé il germe dell’acme che verrà nel Solstizio d’Estate con l’avvento di Vesta, il Fuoco sacro che arde al centro dell’Urbe, mese dell’unione dei due nel vincolo del matrimonio, che avrà il compimento nell’affermazione del potere di Juppiter nel prossimo Equinozio d’Autunno, ma in cui già ha inizio la scomparsa della luce un attimo dopo il culminare del Sole al punto più alto del suo corso; con Juppiter l’Equinozio d’Autunno porta alla pienezza il potere germinato nel Solstizio d’Estate ma nella parità delle ore di luce e di oscurità è prefigurata la fine apparente della forza creatrice del Sole nel Solstizio d’Inverno che seguirà.

A questo punto, chi può mettere un segno e dire: “Questo è l’inizio”?

BIBLIOGRAFIA

CARANDINI: La nascita di Roma – Dèi, Lari, Eroi e uomini all’alba di una civiltà; ed. Einaudi, Torino 1997

DE FRANCISCI: Variazioni su temi di preistoria romana, ed. Bulzoni, Roma 1974

DEVOTO: Origini indoeuropee – Il lessico indoeuropeo, Tabelle, ed. Sansoni, Firenze 1962

DUMÉZIL: Jupiter Mars Quirinus, ed. Einaudi, Torino 1955

DUMÉZIL: La religione romana arcaica, ed. Rizzoli, Milano 1977

GALIANO e VIGNA: Il tempo di Roma, ed. Simmetria, Roma 2013

GALIANO Mars Pater, ed. Simmetria, Roma 2014

TORELLI: Lavinio e Roma, ed. Quasar, Roma 1984

TORELLI: La forza della tradizione, ed. Longanesi, Milano 2011 pagg. 51-55.

NOTE:

[1] Per un esame completo del mese di Marzo rinviamo a Il tempo di Roma di GALIANO e VIGNA; per una più ampia trattazione di Mars e dei suoi Sacerdotes Saliares a GALIANO Mars Pater.

[2] DE FRANCISCI Variazioni su temi di preistoria romana, pag. 109 nota 371.

[3] CICERONE De natura Deorum I, 82.

[4] PLINIO Nat Hist XVI, 44, 235.

[5] OVIDIO Fas II, 441.

[6] MACROBIO Sat I, 12, 7, il quale sembra non comprendere il significato di “ritorno all’Età dell’Oro” proprio di questi rituali.

[7] APPIANO Bellum Punic XX; LIVIO Hist XLV, 33.

[8] CARANDINI La nascita di Roma pag. 422.

[9] Il rapporto tra Minerva e la misura dei mesi lo troviamo nel rito di Settembre con cui si infiggeva il clavus annalis nella cella consacrata a Minerva nel tempio capitolino di Juppiter, a segnare l’inizio del nuovo anno.

[10] DEVOTO Origini indoeuropee rispettivamente n° 118, 324, 325, 328°.

[11] CARANDINI cit. pag. 356 nota 161.

[12] LEWIS e SHORT Latin Dictionary alla voce “Mars”.

[13] Frammento 2 del Carmen Saliare: “Cume tonas, Leucesie, prae tet tremonti / quot ibet etinei deis cum tonarem”, il cui testo, scritto in latino arcaico del IV sec. a.C., può essere approssimativamente così tradotto: “Quando tuoni, o Luminoso, davanti a te tremano / tutti gli Dèi che lassù ti hanno sentito tuonare”.

[14] VALERIO MASSIMO I, 8, 6; VIRGILIO Aen VI, 777–780.

[15] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus, pag. 194.

[16] Dell’iniziazione guerriera a Roma abbiamo trattato in GALIANO Mars Pater e in GALIANO L’Ordo Equestris a Roma, in “Simmetria on line” n° 23 Luglio 2013.

[17] Oltre ai lavori citati nella nota precedente, si veda BAISTROCCHI Il Cerchio magico, riti circumambulatori in Roma antica, Roma s.d. (2010?) pagg. 72-88

[18] DUMÉZIL Jupiter Mars Quirinus pagg. 221–222.

[19] TORELLI La forza della tradizione pagg. 51-55.

[20] Relazioni confermate dai reperti archeologici più antichi ritrovati a Roma, che risalgono al Bronzo recente (circa 1350–1200 a.C.) e provengono dall’area sacra di Victoria e Vica Pota sul Palatino (CARANDINI pag. 100 nota 17) e dalla zona di Sant’Omobono ai piedi del Capitolium (idem pag. 238).

[21] In particolare GALIANO Mars Pater.

vendredi, 11 mars 2016

L'Italia, Roma e il sacro

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mercredi, 16 décembre 2015

Yann Le Bohec, historien de «La guerre romaine»

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Yann Le Bohec, historien de «La guerre romaine» (58 avant J.-C. – 235 après J.-C.)

Tallandier (collection L’art de la guerre, 2014)

Ex: http://cerclenonconforme.hautetfort.com

Le constat de l’auteur est sans appel : l’armée romaine a été l’armée la plus efficace de l’Antiquité. Voire peut-être même de l’histoire. Avec cette synthèse claire et détaillée venant couronner quarante années de recherches, Yann Le Bohec, l’un des plus grands spécialistes de la Rome antique et de son armée, nous livre un travail précieux dont l’intérêt est loin de n’être que strictement historique. L’histoire est enseignements et lorsque l’on voit le piteux état de nos forces armées aujourd’hui, on se dit que l’Etat-major serait fort avisé d’aller prendre quelques leçons chez les anciens… En cinq chapitres couvrant tous les aspects de la guerre romaine, Yann Le Bohec explore l’armée comme institution, sa stratégie, sa tactique, son environnement et surtout la manière dont les Romains vivaient et percevaient la guerre. Leur psychologie, basée tant sur la religion que sur le droit, est en effet un élément fondamental pour comprendre comment ils sont arrivés à une telle excellence dans l’art de guerroyer.

L’armée romaine de l’empire a bien sûr trouvé ses bases dans l’armée républicaine mais a été changée en profondeur par Auguste. En plus de faire de l’empereur le chef suprême de l’armée, celui-ci en fit une armée permanente, professionnelle et sédentaire. Impressionnante par ses effectifs (plus de 300.000 hommes en 23), l’armée ne l’était pas moins par son recrutement de qualité. N’étaient sélectionnés comme légionnaires que des hommes libres choisis après un examen approfondi de leurs aptitudes, de leurs compétences et de leur morale : le dilectus. Ces citoyens étaient la colonne vertébrale d’une armée qui comptait en plus de ses légionnaires bien d’autres unités auxiliaires employant des alliés de Rome ou des étrangers. Les affranchis et les esclaves ne furent employés que dans des cas extrêmes car, dans les mentalités de l’époque, ils étaient considérés comme indignes de porter les armes... Cet aspect qualitatif du recrutement n’était pas la seule force de l’armée. L’encadrement des soldats en était le second pilier. Il était dû à une hiérarchie efficace, formée et toute dévouée au service de l’Etat. D’origine sénatoriale ou équestre, les officiers étaient tenus de montrer leur virtus en offrant le meilleur d’eux-mêmes. C’est une réelle culture de l’exemple. Il est donc essentiel de le souligner : les valeurs romaines sont indissociables de la manière dont la guerre est pensée et vécue. La fides et l’honneur en sont les clés de voute. La valeur individuelle du combattant et son comportement au combat s’allient à la discipline collective. Cette dernière était si importante dans l’armée qu’elle avait même été divinisée à partir d’Hadrien! La discipline se retrouvait dans l’exercice que les Romains considéraient presque comme une science. Mêlant sport, exercices individuels ou collectifs (dont les manœuvres et mouvements étaient le but ultime), l’exercice était vu comme le moyen de garantir le bon comportement du soldat à la guerre ainsi que son obéissance totale. La conclusion est simple : le légionnaire romain est un guerrier de qualité extrêmement bien préparé à la guerre, tant physiquement que moralement.

bohecUU1qhtuL.jpgLa qualité de l’armée romaine venait aussi de sa polyvalence et de sa capacité d’adaptation à toutes les situations. A l’aise dans toutes les formes de combat, elle n’a jamais hésité à emprunter aux autres peuples ce qui pouvait parfaire son efficacité. L’héritage grec fut ici aussi fondamental, notamment en ce qui concerne la poliorcétique (l’art du siège). Par ailleurs, l’armée romaine se caractérisait par une tactique de combat où rien n’était laissé au hasard. La logistique, les services, le génie, le renseignement, la santé et les transmissions avaient été développés comme dans aucune autre armée de l’antiquité. La stratégie, à savoir la mise en œuvre des divers moyens de gagner, était très étudiée et les conflits étaient préparés par des actions politiques ou diplomatiques et s’appuyaient sur une économie prospère.

Bien loin d’être le peuple belliqueux que certains ont pu décrire, les Romains considéraient la guerre comme un mal nécessaire et non une fin en soi. L’auteur démontre d’ailleurs que, contrairement à une idée tenace, Rome n’a jamais eu de projet impérialiste à proprement parler. Elle a mené des guerres tant défensives qu’offensives au gré des circonstances et sans réelle préméditation ou plan d’ensemble. Pourquoi alors faisait-on la guerre ? Les raisons étaient multiples (politiques, sociales, économiques, militaires) mais souvent liées à la psychologie collective : la peur de l’ennemi ; la protection de Rome (patriotisme) ou d’alliés de Rome ; le goût de la domination ou du butin… Une certaine passion immodérée de la guerre a bien sûr toujours existé et des personnages comme César ou Trajan en sont les plus emblématiques. Les Romains ont certes pu déclencher des guerres d’agression sous des prétextes fallacieux mais de nombreux exemples démontrent leur volonté de limiter et de réguler les conflits. Ils considéraient d’ailleurs la guerre civile comme l’horreur absolue... Idéalement, la guerre devait être juste (Cicéron) et limitée (les Stoïciens) mais, une fois commencée, elle devait être victorieuse coûte que coûte, quel qu’en soit le prix. En effet, la victoire amenait la paix et donc la prospérité, la felicitas, sur le peuple romain. N’oublions pas que la victoire, dans les premiers temps de Rome, avait été divinisée… La religion était indissociable de la guerre. Les soldats étaient très pieux et participaient, au sein des garnisons, à de nombreuses cérémonies religieuses. La religion était omniprésente, qu’on pense aux présages des dieux avant le combat (les auspices) ou à toutes ces cérémonies qui bornaient le temps militaire et lui donnaient un réel « rythme sacral ». La fin des campagnes, en octobre, était ainsi l’occasion de trois cérémonies de première importance : l’equus october (course de char), l’armilustrium (purification des armes) et la fermeture des portes du temple de Janus afin de retenir la paix, vue par les Romains comme l’état le plus positif qui soit.

La grande qualité de l’ouvrage de Yann Le Bohec réside non seulement dans l’exhaustivité de son propos (vous apprendrez tout sur la vie quotidienne des soldats, leurs équipements, le détail des différentes unités ainsi que sur l’histoire de l’armée en tant que telle) mais aussi dans la réflexion qu’il mène sur la guerre à partir de multiples exemples historiques ou philosophiques. Objectif, il montre bien que cette armée puissante et organisée avait également ses faiblesses. A partir du 3ème siècle, la conjoncture défavorable pour l’empire accompagnée de l’oubli progressif des préceptes qui avaient fait son efficacité dans le passé sonneront peu à peu le glas de la grande armée romaine.

Rüdiger / C.N.C.

Note du C.N.C.: Toute reproduction de cet article doit mentionner la source.

lundi, 14 septembre 2015

S.P.Q.R

S.P.Q.R

Inno Impero Romano

00:05 Publié dans Histoire | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : histoire, rome, rome antique, antiquité romaine | |  del.icio.us | | Digg! Digg |  Facebook

mercredi, 25 février 2015

Boadicée une reine guerrière Celte contre l'empire romain

Boadicée, une reine guerrière celte contre l'empire romain

mardi, 23 décembre 2014

Así se combatía la corrupción pública en la antigua Roma

Gürtel, Operación Púnica, los ERE de Andalucía, la familia Pujol, Bárcenas o el caso Noos son el pan nuestro de cada día. Desayunamos, comemos y cenamos con ellos en las noticias. Como explica el escritor y ensayista italiano Carlo Alberto Brioschi, en el siglo XXI, la corrupción se ha convertido en una especie de bacilo de la peste que, sin embargo, padecemos desde hace siglos. Y así es, porque delitos tan actuales como el cohecho, el tráfico de influencias, el robo de las arcas del Estado, la extorsión, la adjudicación de obras públicas a amigos poderosos o la compra de votos colapsaron a muchos gobiernos de la antigua Roma, que tuvieron que establecer toda una serie de leyes para perseguirla.

Durante algún tiempo, las estructuras del Estado romano se resistieron a esta corrupción sin sufrir grandes contratiempos. Era parte de un sistema social y político basado en el clientelismo, el abuso de poder, las mordidas y el enriquecimiento personal. La codicia de los funcionarios públicos no tenía límite y estos delitos fueron creciendo a ritmo de las conquistas. Pero llegó un momento en que el gobierno se hizo impracticable y el derecho romano tuvo que introducir cambios.

corr9782262034009.jpgSin embargo, la convivencia entre buenos propósitos y acciones deshonestas por parte de los gobernantes fue siempre una de las características de Roma. Un ejemplo de esto fue Licinio Calvo Estolón, tribuno de la plebe en el 377 a.C., que introdujo una fuerte limitación a la acumulación de tierras por parte de un único propietario, además de una severa reglamentación para los deudores, pero luego fue acusado de haber violado sus propias leyes.

Las «quaestiones perpetuae»

Durante el periodo republicano (509 a.C. - 27 a.C.), el propio sistema electoral facilitaba, de hecho, la corrupción, que se agravó a partir de la expansión territorial y marítima producida después de la Segunda Guerra Púnica. Los gobernadores comenzaron a enriquecerse sin escrúpulos a través del cobro de impuestos excesivos y la apropiación de dinero de la administración pública. Como denunció en aquella época el historiador romano Salustio, «los poderosos comenzaron a transformar la libertad en licencia. Cada cual cogía lo que podía, saqueaba, robaba. El Estado era gobernado por el arbitrio de unos pocos».

La primera ley que se estableció fue la «Lex Calpurnia» (149 a.C.), como consecuencia del abuso del gobernador de la provincia de Lusitania, Servio Sulpicio Galba, al que se acusó de malversación de fondos y fue juzgado por un jurado procedente de la orden senatorial, algo que era toda una novedad. Sin embargo, esta primera ley no imponía ninguna pena pública, sino la devolución del dinero que había sustraído.

En el 123 a.C., se establecieron una serie de tribunales permanentes, llamados «quaestiones perpetuaes», cuyo cometido fue el de investigar todas estas malas prácticas y extorsiones de los gobernadores provinciales que habían sido denunciadas por los ciudadanos. Al principio no tuvieron el éxito deseado, pero fueron importantes porque con ellos se definió legalmente el «crimen repetundarum», que hizo alusión a los delitos de corrupción, cohecho o tráfico de influencias.

Este sistema se fue perfeccionando con la definición de nuevos delitos. El «crimen maiestatis», por ejemplo, definía los abusos de poder por parte de los senadores y magistrados. Era considerado el acto más grave contra la República y fue castigado, incluso, con la pena de muerte o el exilio voluntario. El «crimen peculatus» hacía referencia a la malversación y apropiación indebida de fondos públicos por parte de un funcionario, así como la alteración de moneda o documentos oficiales. O el «crimen ambitus», que describía la corrupción electoral, especialmente la compra de votos.

Leyes anti-corrupción

Todos estos y otros delitos trajeron consigo nuevas leyes, que querían dar respuesta a los diferentes cambios políticos, económicos y morales que se iban produciendo. La «Lex Acilia» –que apareció al mismo tiempo que los «quaestiones perpetuaes»–, subió la pena para los delitos de malversación de fondos y cohecho de la «Lex Calpurnia», estableciendo una multa del doble del valor del daño causado por el funcionario. Es una de las más conocidas, porque se ha conservado gran parte de su texto original.

ferrangarreta.com_lictorsarm.2g..jpgOtras leyes importantes fuero la «Lex Sempronia» (122 a.C.) o la «Lex Servilia de Repetundis» (111 a.C.), que establecieron penas más severas para los delitos de cohecho. La segunda, en concreto, fue la primera ley que introdujo la pérdida de los derechos políticos. Ambas fueron completadas con otras como la «Lex Livia Iudiciaria» (91 a.C.), que impuso una corte especial para los juicios contra los jueces corruptos que hubieran cometido extorsión, o la «Lex Cornelia», que aumentaba las condenas para los magistrados que aceptaran dinero en un juicio por cohecho. Esta última debe su nombre al dictador Lucio Cornelio Sila, que la estableció tres años antes de morir.

La corrupción, sin embargo, seguía imparable. En esta época, el gobernador de Sicilia, Verres, se convirtió de alguna manera en el arquetipo originario del «corruptócrata» incorregible. Se calcula que robó al erario público más de cuarenta millones de sestercios y depredó literalmente su provincia. Y no fue una excepción. El mismo Cicerón, que no le tenía especial simpatía y se esforzaba en presentarlo como un caso claro de avidez de poder, afirmó, por el contrario, que su conducta representaba la norma en buena parte del imperio romano.

Julio César, en las puertas del Tesoro

Cuando aún era cónsul, Julio César fue el que propuso la última y más severa ley republicana contra los delitos de corrupción, la «Lex Iulia», que incluía penas de multas desorbitadas y el destierro. Es curioso que fuera él, pues poco antes no había dudado en recurrir a cualquier medio para acceder al consulado. «Cuando el tribuno Metello trató de impedirle que tomase dinero de las reservas del Estado, citando algunas leyes que vetaban tocarlo, él respondió que el tiempo de las armas es distinto al de las leyes… y se encaminó hacia las puertas del Tesoro», contó de él el historiador Plutarco. Eso no le impidió establecer más de cien capítulos en su ley, la mayoría de ellos destinados a los magistrados e, incluso, jueces que se hubieran dejado sobornar para favorecer a un acusado en un delito de corrupción.

El contenido de todas estas leyes demuestra el grado de corrupción que se vivía en Roma. Con la llegada del Imperio en el 27 a.C., éste no solo no se redujo, sino que se incrementó. Los políticos siguieron sobornando a los funcionarios para conseguir puestos en la administración, mientras que a los ciudadanos se les asfixiaba cada vez con más impuestos y se veían obligados a pagar propinas a cambio de que se les agilizara algún trámite solicitado.

A partir de Augusto, el erario público fue perdiendo importancia e independencia, al ser sustituido por la caja privada del emperador. Esto facilitó, sin duda, la corrupción, a la que se intentó poner remedio. Durante la época del emperador Adriano (24-76 d.C.), por ejemplo, se amplió «crimen repetundarum» a todos los actos de malversación realizados por los funcionarios públicos y los sancionó incluso con penas de muerte. Y junto a este crimen, aparecieron otros como la «concussio» (concusión), una de las prácticas favoritas de los gobernadores provinciales, consistente en exigir a los ciudadanos una contribución no establecida por la ley o aumentar otra sí existente de manera desorbitada.

Pero la historia de Roma parece que ya había sido escrita por el escritor y político romano Petronio, cuando se preguntó, impotente, en el siglo I: «¿Qué pueden hacer las leyes, donde sólo el dinero reina?».

Fuente: ABC

lundi, 15 décembre 2014

Non, le latin n’est pas une langue morte !

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Non, le latin n’est pas une langue morte!

Le latin est bel et bien intégralement enseigné (vocabulaire et syntaxe, littérature et histoire…)

par Bertrand Dunouau

Ex: http://www.bvoltaire.fr

Il y a si peu de raisons de se réjouir aujourd’hui de décisions politiques fortes, assumées et justes en France que je souhaiterais rendre ici hommage au ministère de l’Éducation Nationale qui n’est toujours pas revenu à ce jour sur une dénomination pourtant refusée par l’UNESCO…

Selon les propres critères de cette dernière, le latin n’est pas une langue morte 1, c’est une langue qui n’existe même pas ! Ne cherchant seulement pas à définir les critères de risques pour les langues dites anciennes (ainsi nommées par notre ministère français de l’Éducation nationale qui, notons-le, a su intelligemment appliquer une distinction évidente entre les langues parlées couramment, dites langues vivantes, et les langues qui relèvent d’une rechercher universitaire !), elle évacue franchement la situation en classant le latin comme une langue « morte », au même titre que le gaulois ! Mais les situations ne sont-elles pourtant pas entièrement différentes ?

Tandis que le gaulois ne peut plus être enseigné comme une langue (qu’elle soit vivante ou ancienne) car nous ne possédons que des bribes de mots et de syntaxe par l’intermédiaire de recoupements avec d’autres langues de l’Antiquité, le latin, lui, est bel et bien intégralement enseigné (vocabulaire et syntaxe, littérature et histoire…).

De plus, il est même encore parlé, et pas seulement par les quelques prêtres qui se réunissent à Rome pour les grandes occasions internationales (même dans ce milieu, la langue la plus courante n’est plus le latin, mais l’anglais), image d’ailleurs stéréotypée d’une Église qui resterait conservatrice. Non, ce sont des centaines d’amoureux du latin, de toutes conditions, de tous âges et de tous milieux socio-culturels qui aiment à se réunir au moins une fois par an à Rome ou à Paris pour avoir le plaisir de parler latin. Certains enseignants dispensent même entièrement leurs cours de latin… en latin ! Il existe aussi de nombreux sites entièrement rédigés en latin 2 ! Et ce toujours au XXIe siècle ! Alors l’UNESCO souhaiterait-elle vraiment faire mourir le latin ou reconnaîtra-t-elle enfin que le latin n’est pas une langue morte ? Quoi qu’il en soit, je dis « Bravo ! » à notre ministère de l’Éducation nationale sur ce point, alors que par ailleurs je me bats fermement contre lui sur d’autres sujets (introduction généralisée du numérique à l’école, théorie du genre, au hasard !).

[NDLR : on peut même se procurer Le Petit Nicolas en latin !]

  1. Malgré la dénomination malheureuse de M. Abdul Waheed KHAN [PDF]
  2. Schola nova (site belge), Vita Latinitatis, Ephemeris, etc.

samedi, 22 novembre 2014

Was Roman Citizenship Based on Laws for “All of Humanity”?

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Was Roman Citizenship Based on Laws for “All of Humanity”?

By Ricardo Duchesne 

Ex: http://www.counter-currents.com

450px-2.jpgThe claim that the Roman empire was a legally sanctioned multiracial state is another common trope used by cultural Marxists to create an image of the West as a civilization long working itself toward the creation of a universal race-mixed humanity. This is a lie to which patriots of Western Civ must not yield.

The majority of scholars agree that Rome’s greatest contribution to Western Civilization was the development of a formal-rational type of legal order characterized by the logical consistency of its laws, the precise classification of its different types of law, the precise definition of its terms, and by its method of arriving at the formulation of specific rules wherein questions were posed, various answers from jurists were collected, and consistent solutions were offered. It was a legal order committed to legal decisions based on fairness and equity for all citizens.

The early Romans, before the Republic was established in 509 BC, lived according to laws established through centuries of custom, much like every other culture in the world, each with their own traditions, each ruled by what Max Weber called “traditional law,” a type of authority legitimated by the sanctity of age-old practices. Traditional law tended to be inconsistent and irrational in its application. During Republican times, the Romans created, in 451 BC, their famous Twelve Tables, which established in written form (lex) their centuries-old customary laws (ius). The Twelve Tables [2] covered civil matters that applied to private citizens as well as public laws and religious laws that applied to social fields of activity and institutions. These Tables were customary but they also constituted an effort to create a  code of law, a document aiming to cover all the laws in a definite and consistent manner.

Roman Legal Rationalism

Weber associated “formal-rational authority” with the rise of the modern bureaucratic states in the sixteenth century, but legal historians now recognize that he understated the “formal-rational” elements of both medieval Canon Law and Roman Law. (Harold Berman and Charles Reid, “Max Weber as Legal Historian,” in The Cambridge Companion to Max Weber, ed. Stephen Turner, 2000). By the time we get to the writings of Q. Mucius Scaevola [3], who died in 82 BC, and his fellow jurists, we are dealing with attempts to systematically classify Roman civil law into four main divisions: the law of inheritance, the law of persons, the law of things, and the law of of obligations, with each of these subdivided into a variety of kinds of laws, with rational methods specified as to how to arrive at the formulation of particular rules. These techniques to create and apply Roman law in a rationally consistent and fair manner were refined and developed through the first centuries AD, culminating in what is known as Justinian’s Code, a compilation of all existing Roman law into one written body of work, commissioned by the emperor Justinian I, who ruled the Eastern side of the empire from 527 to 565 AD. Initially known as the Code of Justinian,  it consisted of i) the Digest, a collection of several centuries of legal commentary on Roman law, ii) the Code, an outline of the actual law of the empire, constitutions, pronouncements, and iii) the Institutes, a handbook of basic Roman law for students. A fourth part, the Novels, was created a few decades later to update the Code.

This legal work is now known Corpus of Civil Law, considered to be one of the most influential texts [4] in the making of Western civilization. More specifically, some see it as the foundation of the “Papal Revolution” of the years 1050-1150, which Harold Berman has identified as the most important transformation in the history of the West. The ecclesiastical scholars who made this legal revolution, by separating the Church’s corporate autonomy, its right to exercise legal authority within its own domain, and by analyzing and synthesizing all authoritative statements concerning the nature of law, the various sources of law, and the definitions and relationships between different kinds of laws, and encouraging whole new types of laws, created not only the modern legal system, but modern culture itself. This is the thesis of Berman’s book, Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition [5] (1983).

There are flaws with Berman’s great book (simply stated, he underestimated much of what was accomplished before and after 1050-1150), but he is right to emphasize not just this Papal revolution but the common Western legal heritage of the peoples of Europe neglected by the nationalist historians of the nineteenth century, and, of course, by some New Right intellectuals who prefer “pagan” law.

Here I want to criticize recent works which argue that the Roman legal system broke decisively with any notion of ethnic identity by formulating a legal system “for all of humanity.” This is not easy; there is a universalizing logic inherent to Western civilization, which becomes all the more evident in the development of Roman law, which deliberated and encoded legal principles in reference to all human beings as possessors of reason in common and as inhabitants of a multiethnic Roman community. I don’t intent to fabricate arguments about the racial self-awareness of Romans and the particularistic language of Roman law. But I will nevertheless try to show that Roman legal ideas cannot be used to make the claim that they invented a legal system for a “multicultural and a multiethnic state” — teleologically pointing towards the creation of our current immigrant state in which racial identities are abolished and a raceless humanity is created. There is vast temporal and cultural space between Rome and our current state of affairs.

This argument will come in two parts, with a second part coming later, focusing on the Stoic idea of the “world citizen.” Now I will focus on Philippe Nemo’s argument on the “Invention of Universal Law in the Multiethnic Roman State,” presented in his book, What is the West? (2006). As I said in my last essay [6], Nemo is a French [7] liberal right political philosopher. In the chapter on Rome, he contradicts his earlier assertion that Greek citizenship was “regardless of ethnicity,” as he admits that Greek city-states were “ethnically homogeneous” (p. 17). But Nemo now thinks he has a tight case to persuade us that with their contribution to law “the Romans revolutionized our understanding of man and the human person” wherein all reference to ethnicity was disregarded. His first line of argument is that, as the Romans expanded beyond Italy and created a multiethnic empire, and foreign subjects came under their sovereignty,

it became necessary to use ordinary words and formulas without reference to the religions or institutions of specific ethnic groups so that they could be understood by everyone. This, in turn, encouraged the formulation of an increasingly abstract legal vocabulary. (p. 19)

I would express the implications of this expansion across multiple ethnic lands as follows: with non-citizens inhabiting the empire, to whom the current laws for citizens did not apply, jurists developed “laws of nations” or laws that applied to all people, foreigners and non-citizens as well as citizens. In connection to this they also began to reason about the common principles by which all peoples should live by, the laws that should be “natural” to all humans (rooted in “natural law”). But this form of reasoning about law was not merely a circumstantial reaction to the problem of ruling over many different categories of people; it was a form of reasoning implicit in the process of reasoning itself. The development of an increasingly abstract vocabulary resulted from the application of reason (as opposed to customary thinking) to the development of law; abstraction is inherent to the process of reasoning and results from the process of generating definitions, classifications, and concepts, recognizing common features in particular instances and individual cases, and generating different types of laws and different terms. As Aristotle writes in his Posterior Analytics, inductive reasoning “exhibits the universal as implicit in the clearly known particular” (Book I: Ch.1).

Essentially what the Romans did was to apply Greek philosophy, particularly the Aristotelian inductive logic of moving from experience to certainty or probability by coalescing together in one’s mind the common elements in the particular cases observed. Romans jurists were trained to be very practical about their legal reasoning, and rather than debating ultimate questions about justice, they went about deciding what was the best legal course of action in light of the stated facts, and, in this vein, they classified Roman law into different kinds of law in a systematic fashion, as was evident in the treatises of Q. Mucius Scaevola.

The point I am driving at is that just because the Romans were developing legal concepts that were increasingly abstract and without reference to customs by particular groups, it does not mean they were trying to create a  multiracial state with a common system of law, or a nation dedicated to racial equality. There is clearly a connection between rationalization and universalization which engenders an abstract language that bespeaks of a common humanity. That is why Western thinkers always write in terms of “man,” “humanity,” “mankind” even if they are really thinking of themselves, be they Greeks, Romans, or Germans. Westerners created a universal language in the course of becoming the only people in this planet — as I will argue in a future essay — self-conscious of the “human” capacity to employ its rational faculties in a self-legislating manner in terms of its own precepts, rising above the particularities of time, custom, and lineage and learning how to reason about the universal questions of “life” and the “cosmos.” Europeans are the true thinkers of this planet, the only ones who freed their minds from extra-rational burdens and requirements, addressing the big questions “objectively” from the standpoint of  the “view from nowhere,” that is nobody’s in particular. But we should realize that it is the view of European man only.

Romanitas

Now, it is also the case, as Nemo points out, that with the emergence of the Hellenistic world after Alexander the Great’s conquests (323-31 BC), Greek Stoics philosophized about a common humanity (in the context of the combination of Greeks, Persians, Syrians, Egyptians, and other groups within this world) with a common nature. It is also the case that Stoicism was very influential among Romans, who produced their own Stoics, Marcus Aurelius and Seneca. Influenced by the Stoics, Roman jurists developed the idea of natural law, which, in the words of Cicero, means:

True law is right reason in agreement with nature; it is of universal application. . . . And there will not be different laws at Rome and at Athens, or different laws now and in the future, but one eternal and unchangeable law will be valid for all nations and all times, and there will be one master and ruler, that is God, over us all, for he is the author of this law . . . (cited by Nemo, p. 21).

How can one disagree with Nemo that the Romans bequeathed to us the idea that we should envision a New World order in which all the peoples of the earth are ruled by universal laws regardless of ethnicity and other particularities? Add to this the fact that with the Edict of Caracalla issued in 212 AD, all free men in the Roman Empire were given Roman citizenship. Citizenship had long been reserved for the free inhabitants of Rome, and then extended to the free inhabitants of Italy, but this edict extended citizenship to multiple ethnic groups.

Still, it would be a great mistake to envision Roman citizenship as a conscious effort on the part of ethnic Romans to recognize the common humanity of all ethnic groups. Firstly, the extension of citizenship was part of the process of Romanization [8], of acculturation and integration of conquered peoples into the empire; it was intended as a political measure to ensure the loyalty of conquered peoples, and the acquisition of citizenship came in graduated levels with promises of further rights with increased assimilation; and, right till the end, not all Roman citizens had the same rights, with Romans and Italians generally enjoying a higher status. Secondly, it is worth noticing that this process of Romanization and expansion of citizenship was effective only in the Western (Indo-European) half of the Empire, where inhabitants were White; whereas in the East, in relation to the non-Italian residents of Egypt, Mesopotamia, Judea, and Syria, it had only superficial effects.

It has been argued, to the contrary, that Roman political culture itself fell prey to “orientalizing” motifs coming from the eastern side. Bill Warwick’s book, Rome in the East (2000), shows that Roman rule in the regions of Syria, Jordan, and northern Iraq was “a story of the East more than of the West,” and states flatly that these lands were responsible for the “orientalizing” of Rome (p. 443). Thus, it would be wrong to argue that, as a result of extending citizenship to non-Romans, “a single nation and uniform culture developed [10].”

Thirdly, keep in mind that, before Caracalla’s edict of 212 AD, the vast majority of those who held Roman citizenship were from Italy; in other words, Romans only agreed to grant citizenship to non-Italians close to the last period of their empire; and historians agree that the only reason Caracalla extended citizenship was to expand the Roman tax base. In fact, it took a full-scale civil war, or, as it is known by historians, a Social War [11] or Marsic War [Lat. socii = allies], 91–88 BC, for Romans to agree to share citizenship with their Italian allies who had long fought on their side helping them create the empire. It is no accident that the roots of the word “patriot” go back to Roman antiquity, the city of Rome, expressed in such terms as patria and patrius, which indicate city, fatherland, native, or familiar place, and worship of ancestors [12]. Roman ethnic identity was strongly tied to the city of Rome for centuries, and when it did extend beyond this city, it did so almost exclusively in relation to closely related ethnic groups in Italy [13] and southern Gaul.

Therefore, it would be anachronistic to project back to the Romans a program akin to our current immigration/diversity reality, implemented with the conscious purpose of undermining European pride and identity and creating a race-mixed population. The cultural Marxists in control of our universities are simply using deceptive arguments to make Europeans think that what is happening today is part of the natural course of Western Civ. This form of intellectual manipulation of students is now rampant in academia.

In a second part [14] of this essay, I will question some of the incredibly absurd lengths to which the  Stoic ideal of a cosmopolitan citizen has been willfully misinterpreted and misapplied by our “major” scholars as a “program of education” to be implemented across the West in order for white children to overcome their racism and sexism and accept mass immigration and matriarchy.

Reprinted from: http://www.eurocanadian.ca/2014/10/was-roman-citizenship-based-on-laws-for.html [15]

 

 


 

Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

 

URL to article: http://www.counter-currents.com/2014/11/was-roman-citizenship-based-on-laws-for-all-of-humanity/

 

URLs in this post:

[1] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2014/11/corpus-iuris-civilis.jpg

[2] Twelve Tables: http://thelatinlibrary.com/law/12tables.html

[3] Q. Mucius Scaevola: http://books.google.ca/books?id=Tk52EsGqNUgC&pg=PA312&lpg=PA312&dq=Q.+Mucius+Scaevola&source=bl&ots=CyPPloBw39&sig=KfckI1HVc6jriVX5C-O7IbPX6sE&hl=en&sa=X&ei=NFVKVLmBHsSYyATfl4CQCA&ved=0CFUQ6AEwBw#v=onepage&q=Q.%20Mucius%20Scaevola&f=false

[4] most influential texts: http://www.cambridge.org/us/academic/subjects/law/legal-history/roman-law-european-history

[5] Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition: http://www.amazon.com/gp/product/0674517768/ref=as_li_tl?ie=UTF8&camp=1789&creative=390957&creativeASIN=0674517768&linkCode=as2&tag=countecurrenp-20&linkId=2MXE7J4XLZ34ULXY

[6] my last essay: http://www.eurocanadian.ca/2014/10/acclaiming-greek-invention-of-civic.html

[7] French: http://muse.jhu.edu/journals/scs/summary/v004/4.1astell.html

[8] process of Romanization: http://en.wikipedia.org/wiki/Roman_citizenship

[9] Image: http://www.counter-currents.com/wp-content/uploads/2014/11/RomanEmpire-e1416255262305.jpg

[10] a single nation and uniform culture developed: http://anthrojournal.com/issue/october-2011/article/romanization-the-materiality-of-an-immaterial-concept

[11] Social War: http://ocw.nd.edu/classics/history-of-ancient-rome/eduCommons/classics/history-of-ancient-rome/lectures-1/marius-vs.-sulla-romes-social-wars

[12] worship of ancestors: http://www.veryshortintroductions.com/view/10.1093/actrade/9780192853882.001.0001/actrade-9780192853882-chapter-3

[13] closely related ethnic groups in Italy: http://bmcr.brynmawr.edu/2008/2008-04-25.html

[14] second part: http://www.counter-currents.com/2014/11/martha-nussbaum-premier-citizen-of-the-world/

[15] http://www.eurocanadian.ca/2014/10/was-roman-citizenship-based-on-laws-for.html: http://www.eurocanadian.ca/2014/10/was-roman-citizenship-based-on-laws-for.html

 

samedi, 18 octobre 2014

Les États des peuples et l'empire de la nation

Archives - 2000
 
Les États des peuples et l'empire de la nation
 
par Frédéric KISTERS
 
Armee_arcConstantinSud.jpgIl existe une confusion permanente entre le mot « nation » qui désigne une association contractuelle de personnes liées à une constitution et la notion de « peuple » qui renvoie à une identité, c’est-à-dire un fait donné, une appréhension de soi résultant de l’histoire. Le peuple est donc le produit du déterminisme — nous ne décidons pas de notre appartenance —, tandis que la nation est le résultat volontaire d’un choix — nous élisons notre citoyenneté.
 
Peuples et Nation
 
Le peuple est un produit de l’histoire dont les membres ont le sentiment de partager un passé et des valeurs communes. Pour le définir, on utilise généralement 4 critères principaux : la langue, la culture, le territoire, les relations économiques. Isolé, aucun de ces critères ne semble suffisant. Si l’on octroyait le rôle principal à la langue, il faudrait en conséquence accepter que les Français, les Suisses romans, les Québécois ainsi que les francophones de Belgique et d’Afrique forment un peuple. Pareillement, les Flamands et les Néerlandais ne se sentent-ils pas de culture différente ? Dans la culture, nous intégrons la religion qui en est un des aspects. De plus, la culture influe sur la manière de vivre la religion : les Albanais et les Arabes saoudites ont des visions très différentes de la foi musulmane. La plupart des peuples occupent un territoire plus ou moins cohérent ; il est en effet difficile de maintenir des liens sans proximité. Il faut toutefois noter quelques exceptions telles que les Juifs avant la création d’Israël ou les tribus nomade. De même, les populations immigrées maintiennent un communauté et conservent des liens étroits avec leur patrie d’origine. Enfin, l’existence d’un peuple suppose des relations économiques privilégiées entre ses membres. L’ensemble de ces traits devrait permettre d’esquisser les linéaments de l’idiosyncrasie d’un peuple ; pourtant, son image apparaît souvent floue, parce que critères utilisés pour en préciser les contours ne sont pas assez formels. En réalité, un sujet qui a une histoire ne peut se définir, puisqu’il se modifie sans cesse.
 
Quant à la nation, selon la définition de Sieyès (1), elle est une communauté légale qui possède la souveraineté. Si l’expression « la nation est une et indivisible » signifie que l’ensemble de ses membres détient la souveraineté et que chacun se soumet aux mêmes lois, elle n’implique toutefois pas nécessairement que les citoyens habitent dans un territoire circonscrit ou aient des relations économiques. Les étrangers qui n’adoptent pas la citoyenneté de leurs pays d’accueil ne sont pas des citoyens à part entière, même s’ils jouissent d’une partie des droits civiques. Une communauté de langue et de culture n’induit pas non plus une citoyenneté partagée. Enfin, la nation a conscience de son existence et puise dans son histoire les éléments symboliques qui renforcent sa cohésion, expliquent ses avatars et justifient l’intégration d’individus ou de peuples étrangers.
 
Deux conceptions du nationalisme
 
Par conséquent, le terme nationalisme possède deux acceptions contradictoires selon qu’il se réfère à l’idée de peuple ou à la notion de nation. Dans le premier cas, il fait appel au sang, au sol, aux ancêtres, au passé, c’est un nationalisme de l’héritage qui se réduit souvent à un fallacieux sentiment de supériorité sur les autres et qui, de plus, porte sur un objet de taille limitée. Par ailleurs, peu de choses distinguent le nationalisme du régionalisme qui désigne un sentiment semblable projeté sur un objet plus restreint. Dans le second cas, il transcende l’individu et l’arrache au déterminisme de son milieu. On adhère de manière volontariste à la nation pour réaliser un projet en commun, mais on appartient au peuple de ses parents. Au contraire, la nation possède une faculté d’extension illimitée, car elle peut toujours accueillir de nouveaux membres en dehors des considérations de naissance. Notons enfin que ces deux formes de nationalisme peuvent plus ou moins se recouper et se renforcer au sein d’un même État.
 
État et Empire
 
Pour accéder à la souveraineté, le(s) peuple(s) doive(nt) constituer une nation et se donner une structure : l’État qui arbitre les intérêts contradictoires des citoyens, assure leur sécurité et rationalise le devenir de la société. Dans l’histoire, nous rencontrons deux grands types d’États ; d’une part, ceux issus d’un peuple qui avait une conscience subjective de sa réalité et qui se sont dotés d’une structure objective — l’État français par ex. ; d’autre part, les nations forgées au départ de peuples épars, tel que l’Autriche-Hongrie, qui portent souvent le nom d’Empire. Dans les deux situations, il faut à l’origine une volonté agrégative qui peut être incarnée par un monarque, une institution ou un peuple fédérateur.
 
En réalité, jamais l’État-nation n’a coïncidé dès son origine avec une exacte communauté de langue et de culture. Le préalable n’est pas l’unité culturelle ; au contraire, c’est la nation qui unit le(s) peuple(s) et non l’inverse. L’État, par l’action de son administration centralisée et de son enseignement, harmonise les idiomes et les comportements sociaux. L’existence d’un territoire unifié sous une même autorité facilite aussi les déplacements et donc les mélanges de populations hétérogènes. Des affinités culturelles peuvent inciter les hommes à se regrouper au sein d’une nation, mais cette dernière entreprend à son tour l’élaboration d’une nouvelle « identité nationale ». Surtout, l’histoire n’a jamais vu une nation se former sur base d’intérêts économiques, c’est pourquoi nous pensons que l’Union européenne emprunte un mauvais chemin.
 
aquilifer_16894_lg.gifL’État-nation, dont la France est l’archétype, désire l’égalité, l’uniformité, la centralisation ; il établit une loi unique sur l’ensemble de son territoire. Il ne reconnaît pas la diversité des coutumes et tend à la suppression des différences locales. Il suppose que tous les peuples sous son empire adoptent les mêmes mœurs et s’expriment dans sa langue administrative.
 
Au contraire, l’Empire doit compter avec les différents peuples qui le compose et tolère une relative diversité législative en son sein. De même, il ne jouira pas nécessairement d’une autorité égale sur chacune de ses provinces. Certaines d’entre-elles peuvent être presque indépendantes (comme par exemple les principautés tributaires de l’Empire ottoman), tandis que d’autres sont totalement soumises au gouvernement central. Parfois, l’on vit même des peuples érigés en nations cohabiter dans le même Empire (vers sa fin, l’Empire austro-hongrois comprenaient une nation « hongroise », une nation  « allemande » et divers peuples slaves). Notons enfin que, de notre point de vue, il n’existe pas actuellement de souverain européen, mais bien des institutions européennes qui agissent avec le consentement de plusieurs nations.
 
Droit de vote ou citoyenneté
 
Par ailleurs, se pose aujourd’hui la question du droit de vote des étrangers. Nos dirigeants disputent pour savoir si nous octroierons le droit de vote aux seuls Européens, et sous quelles conditions, ou si nous l’étendrons aux ressortissants non-européens. À notre avis, le problème est mal posé. En effet, le droit de vote, réduit aux communales qui plus est, n’est jamais qu’une part de l’indivisible citoyenneté, qu’on la dissèque ainsi en créant des sous-catégories dans la société nous semble malsain, car cela nuit à l’unité de la nation en dégradant le principe d’égalité des citoyens devant la Loi. De plus, la citoyenneté implique aussi des devoirs dont le respect garantit nos droits. Dans le débat, d’aucuns proposent d’accorder la citoyenneté belge plutôt que le droit de vote. Sans hésiter, nous allons plus loin en soutenant un projet de citoyenneté européenne. Dans cette entreprise, nous nous appuyons ; d’une part, sur l’œuvre majeure (2) d’un grand penseur politique, Otto Bauer, le chef de file de l’école austro-marxiste ; d’autre part, sur un précédent historique : le concept de double citoyenneté dans l’Empire romain.
 
Otto Bauer articulait sa thèse autour du concept de « communauté de destin » grâce auquel il donna une nouvelle définition de la Nation. Selon lui, la culture et la psychologie permettent de distinguer un peuple d’un autre, mais ces caractères sont eux-mêmes déterminés par l’Histoire. Suivant ses vues, le peuple ne se définit plus par une appartenance ethnique, une communauté de langue, l’occupation d’un territoire ou en termes de liens économiques, mais bien comme un groupe d’hommes historiquement liés par le sort. Dès lors, dans cet esprit, les habitants d’une cité cosmopolite, issus d’origines diverses mais vivant ensemble, peuvent fort bien, dans certaines circonstances historiques, former une nation. Évidemment, il existe une interaction permanente entre le « caractère » et le destin d’un peuple, puisque le premier conditionne la manière de réagir aux événements extérieurs, aussi la nation est-elle en perpétuel devenir.
 
Ainsi, Bauer justifiait le maintien d’un État austro-hongrois par la communauté de destin qui liait ses peuples depuis des siècles. Une législation fédérale aurait protégé les différentes minorités et garanti l’égalité absolue des citoyens devant la Loi qu’il considérait comme la condition sine qua non de la bonne intelligence des peuples au sein de l’État.
 
Dans cette perspective, la conscience du passé partagé n’exclut pas le désir d’un avenir commun. Pour notre part, nous aspirons à une nation européenne dans laquelle fusionneraient les peuples européens.
 
Dans l’Empire romain, il existait un principe de double citoyenneté. Jusqu’à l’édit de Caracalla (212 ap. JC), la citoyenneté romaine se surimposait à l’origo, l’appartenance à son peuple. Évidemment la première conservait l’éminence sur la seconde. Néanmoins, le Romain pouvait recourir, selon les circonstances, soit au droit romain soit aux lois locales. Lorsque l’empereur Caracalla donna la citoyenneté romaine à tous les hommes libres de l’Empire, ceux-ci conservèrent néanmoins leur origo (3). Aussi pensons-nous, qu’il serait possible de créer une citoyenneté européenne qui, durant une période transitoire, coexisterait avec les citoyennetés des États membres. En effet, l’homme n’appartient qu’à un seul peuple, mais il peut élire deux nations, du moins dans la mesure où leurs lois ne se contredisent point et à la condition qu’on établît une hiérarchie entre ses deux citoyennetés et que l’on donnât la prééminence à l’européenne.
 
► Frédéric Kisters, Devenir n°15, 2000.
 
◘ Notes :
  • [1] Sur l’abbé Sieyès, cf. BREDIN (Jean-Denis), Sieyès, La clé de la révolution française, éd. de Fallois, 1988.
  • [2] BAUER (Otto), Die Nationalitätfrage und die Sozialdemokratie, Vienne, 1924, (1er éd. 1907), XXX-576 p. (Marx Studien, IV). Edition française : ID. , La question des nationalités et la social-démocratie, Paris-Montréal, 1987, 2 tomes, 594 p.
  • [3] JACQUES (François) et SCHEID (John), Rome et l’intégration de l’empire (44 av. J.C. - 260 ap. J.C.), tome 1 Les structures de l’empire romain, Paris, 2e éd. 1992 (1er : 1990), p. 209-219 et 272-289 (Nouvelle Clio. L’Histoire et ses problèmes).
 

lundi, 16 juin 2014

Imperium statt Nationalstaat

Imperium statt Nationalstaat

Interview mit David Engels

von Johannes Schüller

Ex: http://www.blauenarzisse.de

David Engels, Deutschbelgier und Brüsseler Professor für Römische Geschichte, hat 2013 in Frankreich einen vieldiskutierten Bestseller zur Zukunft Europas veröffentlicht. Ein Gespräch über historische Parallelen.

 

Blaue​Narzisse​.de: Ihre These vom Niedergang des Westens und seinen Analogien zum Niedergang Roms erinnert stark an Oswald Spenglers Untergang des Abendlandes. Doch der große Kollaps blieb aus. Warum sollte er ausgerechnet jetzt, in einer doch recht stabilen Phase des Friedens, eintreten?

David Engels: Spengler zählt tatsächlich, neben Friedrich Nietzsche, Thomas Mann und C. G. Jung, zu den Denkern, denen ich am meisten verdanke. Seine Geschichtsmorphologie halte ich jedoch auch in vielen Punkten für korrekturbedürftig und ausbaufähig. Wenn wir vom Niedergang oder gar Untergang reden, sollten wir uns allerdings daran erinnern, dass Spengler einmal ausdrücklich erklärt hat: „Es gibt Menschen, welche den Untergang der Antike mit dem Untergang eines Ozeandampfers verwechseln. Der Begriff einer Katastrophe ist in dem Worte nicht enthalten. Sagt man statt Untergang ‚Vollendung’ (…), so ist die ‚pessimistische’ Seite einstweilen ausgeschaltet, ohne dass der eigentliche Sinn des Begriffs verändert worden wäre.”

Es geht also nicht um einen spektakulären „Kollaps”, der sich auf Jahr und Tag berechnen ließe. Stattdessen bleibt die Annahme entscheidend, dass auch Europa, wie jede andere Kultur, den morphologischen Vorgaben einer etwa tausendjährigen Kulturentwicklung unterliegt. An deren Ende stehen unweigerlich Verflachung, Entgeistigung, Niedergang und Rückfall in frühzeitlichen Atavismus.

Übrigens: Von „Frieden“ würde ich nicht wirklich sprechen wollen. Bedenken Sie, dass es gerade einmal 20 Jahren her ist, dass der Kalte Krieg beendet wurde, der uns nur im Rückblick fälschlicherweise als langer „Frieden“ erscheint. Und wenn ich an die schrecklichen Kriege zwischen den jugoslawischen Teilstaaten und an den momentan sich in der Ukraine abzeichnenden Bürgerkrieg denke, kann unser Kontinent kaum als wirklich befriedet gelten. Freilich führen die wichtigsten Staaten, die heute die EU ausmachen, seit 1945 keine Kriege mehr gegeneinander. Dass sie dies jedoch fast jeden Tag erneut als einzige Legitimation ihrer Existenz feiern, und das bis zum Abwinken, halte ich für geradezu grotesk. Auch die USA haben den nordamerikanischen Kontinent seit 1865 „befriedet” ohne hierin ihre historische Aufgabe als erschöpft zu betrachten.

Wie könnte sich der Untergang der EU real gestalten?

Zum Glück sind wir ja noch nicht so weit, dass schon vom „Untergang” die Rede sein muss. Es handelt sich vielmehr, in Analogie zu den Ereignissen des 1. Jahrhunderts v. Chr., um den „Übergang” einer demokratisch verbrämten, scheinhumanistisch unterfütterten und ultraliberalen Oligarchie in eine imperiale Staatsform. Erstere erweist sich als immer unbeweglicher, instabiler und unbeliebter; letztere dagegen stellt einen vielversprechenden Kompromiss zwischen den scheinbar unvereinbaren Extremen technokratischen Managements und plebiszitärer Radikaldemokratie dar.

Und wenn wir ehrlich sind, hat dieser Prozess ja schon lange begonnen, bedenkt man, wie überall in der EU die demokratische Maske fällt: Volksabstimmungen werden entweder ignoriert oder wiederholt, wenn das Resultat politisch unerwünscht ist, denken Sie nur an die Skandale um die europäische Verfassung, defizitäre Staaten werden, wie Griechenland, unter Provinzialverwaltung gestellt, und die EU-​Verträge sehen noch nicht einmal ein klares demokratisches Prozedere für die Ernennung des Präsidenten der Kommission vor.

Was noch fehlt, um die Analogie zu Rom perfekt zu machen, ist lediglich die konservative Wertewende und die Rückkehr eines in der Geschichte gründenden europäischen Sendungsbewusstseins. Und schon werden wir erneut in einem quasi augusteischen Staatswesen leben. Ob sich diese Wende, die sich ja schon überall im Bedeutungsanstieg traditionalistischer Parteien abzeichnet, nun freilich von innen heraus vollziehen wird, oder es erst einer jahrzehntelangen schweren Krise bedarf, ist offen. Um unseren Kontinent steht es jedenfalls äußert schlecht, denken wir etwa an Deindustrialisierung, Arbeitslosigkeit, Überalterung, Bevölkerungsschwund, Masseneinwanderung, Kapitalflucht, explodierenden Sozialbudgets und die chronische Unfähigkeit unseres politischen Systems, über eine einzige Legislaturperiode hinaus wirklich langfristig und umfassend angelegte Reformplänen zu realisieren. Deshalb tippe ich eher auf eine jahrzehntelange, schwere Krise – leider.

Spengler prognostiziert, ja fordert im Untergang des Abendlandes die Herrschaft neuer Caesaren, der Diktatoren auf Zeit. Diese Hoffnung ist in Rom und in der ersten Hälfte des 20. Jahrhunderts fatal gescheitert. Wer könnte uns jetzt noch demokratisch retten?

Diktatur, Caesarismus und Kaiserreich sind für Spengler untrennbar verbunden. Und in Rom ist der Caesarismus ja nicht gerade gescheitert. Er etablierte sich vielmehr nach den verschiedensten kurzlebigen Versuchen der Konstruktion autoritärer Herrschaft durch die Gracchen, Marius, Sulla, Pompeius und Caesar dauerhaft seit der Machtergreifung des Augustus. Letzter errichtete dann eine neue Regierungsform, welche im Westen 500 Jahre, im Osten 1.500 Jahre Bestand haben sollte. Keine schlechte Erfolgsbilanz, wie ich finde.

Heute ist es kaum eine Generation her, dass die letzten autoritären Regime in Europa verdrängt wurden. Ich denke dabei nicht nur an den Ostblock, sondern auch an Griechenland oder Spanien. Die Forderung nach dem „starken Mann“, der uns aus der Krise führt, bleibt trotzdem aktueller denn je. Einer Umfrage der Le Monde Diplomatique zufolge erklärten sich 2013 32,3 Prozent der Deutschen, 38,2 der Italiener, 41,8 der Engländer, 43,2 der Franzosen, 56,6 der Ungarn, 60,8 der Polen und 62,4 der Portugiesen mit der Aussage einverstanden: „Was mein Land am meisten braucht, ist ein starker Mann an der Spitze, der sich weder um das Parlament noch um die Wahlen schert”. Wer will also heute überhaupt noch „demokratisch” gerettet werden? Die Demokratie – oder das, was wir heute unter ihr verstehen, und dem ein Athener des 5. Jahrhunderts v. Chr. nur mit Kopfschütteln begegnet wäre – ist weitgehend gescheitert. Sie lässt das Abendland von Tag zu Tag tiefer in die Krise sinken.

Blaue Narzisse​.de: Prof. Engels, ist unsere moderne Demokratie einfach nur ein historisches Missverständnis im Vergleich zur Antike?

David Engels: Nun, im Gegensatz zu dem, was heute überall verbreitet wird, lassen sich Ideale und Staatsformen nicht einfach per Dekret exportieren. Alles hängt auch von der dazugehörigen Mentalität ab. Von daher ist es ohnehin fast unmöglich, einen Begriff wie „Demokratie” in Antike und Abendland zu vergleichen. Insgesamt allerdings lässt sich beobachten, dass unsere Demokratie eine starke Tendenz aufweist, das klassische athenische, schon im 4. Jahrhundert v. Chr. gescheiterte Prinzip regelmäßiger Volksabstimmungen wie auch einer maximalen Einbindung jeden Bürgers in die Staatsverwaltung hinter sich zu lassen. Stattdessen werden vielmehr immer zahlreichere Kontroll– und Mittlerinstanzen zwischengeschaltet.

Das mochte bei außenpolitischer Flaute und wirtschaftlichem Wachstum, wie in der zweiten Hälfte des 20. Jahrhunderts, noch weitgehend folgenlos bleiben, offenbart sich aber heute angesichts der zahlreichen Krisen als fatale Schwäche. Denn die tatsächliche Macht muss sich angesichts der entstehenden Lähmung der Entscheidungsfindung notwendigerweise in andere Bereiche verlagern, um die Gesellschaft handlungsfähig zu halten.

Sie machen auch den Mangel an Ungleichheit und Autoritäten für den Untergang verantwortlich. Wie lässt sich eine Wiedergeburt dieser Werte mit einer demokratischen Gesellschaft verbinden?

Alles hängt davon ab, wie wir „Demokratie” definieren. Heute versucht die Gleichmacherei der „political correctness” jede gesellschaftliche Ausnahme in schon fast pathologischem, vorauseilendem Gehorsam zur gleichberechtigten Regel neben die mehrheitliche Norm zu stellen. Daher wird auch der Volkswille, wenn er sich denn einmal äußert und mit der herrschenden Ideologie nicht vereinbar ist, umgedeutet, korrigiert, zensiert oder glatt ignoriert. Gleichzeitig befindet sich die tatsächliche politische Macht in demokratisch unzugänglichen Zirkel einiger mächtiger Wirtschaftsmanager, Druckgruppen und internationaler Institutionen, welche von der Machtlosigkeit der Demokratie profitieren und das System daher um jeden Preis konservieren wollen. Betrachtet man diese Gegenwart, dann dürfte es tatsächlich schwer werden, eine solche Staatsform mit der Wiedergeburt traditioneller Werte zu verbinden.

Wenn wir uns aber daran erinnern, dass Demokratie im ursprünglichen Sinne einfach nur eine Staatsform bezeichnet, in der der Volkswille in jedem Augenblick so ungeteilt und ungefiltert wie möglich in politisches Handeln umgesetzt wird, sehe ich keinerlei Unvereinbarkeit. Denn die Zahl jener, die sich zu den historischen Werten unserer abendländischen Kultur bekennen bzw. in ungebrochener Kontinuität mit ihnen leben, macht ja immer noch die Mehrzahl der Bevölkerung aus. Unter diesem Blickwinkel wäre also die Rückkehr zu einer wahrhaft demokratischen Gesellschaft in Europa sogar untrennbar verbunden mit einer vergrößerten Loyalität und Solidarität unserer historischen Identität gegenüber. Und eine solche Kombination war ja gerade das ideologische Aushängeschild der „res publica restituta”, der „wiederhergestellten Republik” des Augustus.

Sie schreiben, ähnlich wie Spengler, Optimismus sei Feigheit. Bleiben uns jetzt nur der Untergang und der resignierte Rückzug ins Private?

Was als „Optimismus” und „Pessimismus” gilt, hängt weitgehend von unserer eigenen Perspektive auf die Geschichte ab. Ich gestehe, dass ich als überzeugter Abendländer wie auch als Historiker das Heraufkommen einer geschichtsverbundeneren Regierungsform und Weltanschauung mit einer gewissen Sympathie begrüße. Als Historiker ist man ja in irgendeiner Weise, offen oder verdeckt, immer Traditionalist.

Eine augusteische Wende für die EU würde aber, trotz aller republikanischen Ummantelung und Popularität der neuen Regierung, doch wesentlich nur die in den letzten Jahrzehnten vollzogene Vereinfachung und Konzentration von Macht in den Händen einiger Weniger definitiv verankern. Der Rückzug ins Private hat sich schon seit nunmehr zwei Generationen weit verbreitet, wie fast mathematisch an der Wahlbeteiligung überall in Europa abzulesen ist. Daran ändert auch die Aufsicht einer plebiszitär akklamierten obersten Instanz nichts. Diese Tatsache kann ich nur bedauern, ohne allerdings die geringste Hoffnung zu haben, dass dieser Prozess umkehrbar wäre.

Auch haben wir ja gar nicht die Wahl, denn ein Rückfall Europas in die Nationalstaaterei 28 kleiner Länder ist keine sinnvolle Alternative. Gegen machtpolitische Giganten wie die USA oder China hätte Europa nicht die geringsten Chancen, auch Deutschland mit seiner schwindenden Bevölkerung und seiner wirtschaftlichen Abhängigkeit von seinen Nachbarn stellt hier keine Ausnahme dar. Wir würden nur Brüssel gegen Washington oder Peking eintauschen, während sich gleichzeitig unsere Nationalstaaten gegenseitig zerfleischen, obwohl sie alle unter denselben Problemen leiden. Die imperiale Lösung ist deshalb vielleicht sogar das geringere Übel für den Kontinent. Das klingt möglicherweise hart. Aber wir sollten uns früh mit diesen Aussichten vertraut machen. Umso eher können wir unsere Zukunft so gut wie möglich gestalten.

Prof. Engels, vielen Dank für das Gespräch!

Anm. der Red: Die französische Originalausgabe (Le Déclin. La crise de l’Union européenne et la chute de la République romaine. Analogies historiques, Paris 2013) erschien dieses Jahr in einer vom Autor erstellten, wesentlich erweiterten deutschen Fassung im Berliner Europaverlag unter dem Titel Auf dem Weg ins Imperium. Die Krise der Europäischen Union und der Untergang der Römischen Republik. Historische Parallelen. Hier gibt es mehr Informationen dazu. Und hier geht es zum ersten Teil des Interviews.

samedi, 23 mars 2013

Les anciens Romains connaissaient l’Amérique

Les anciens Romains connaissaient l’Amérique: de nouvelles preuves mises à jour

 

Un examen d’ADN démontre qu’il y avait des semences de tournesol dans les vestiges retrouvés dans l’épave d’un bateau coulé dans le Mer Tyrrhénéenne au II° siècle avant Jésus-Christ. Pourtant on croyait que cette fleur, vénérée par les Incas, avait été importée en Europe par les conquistadores...

 

copertina_romani_II.jpgEn somme, on peut croire désormais que bien avant les Vikings, les Romains fréquentaient le continent américain. De nouveaux indices archéologiques convaincants semblent confirmer désormais que les navires romains entretenaient des relations commerciales avec l’Amérique. Elio Cadelo, vulgarisateur scientifique, l’a annoncé lors d’une conférence tenue en marge d’une conférence de presse à Bologne portant sur la série cinématographique archéologique “Storie del Passato”. Le documentaire “Quand les Romains allaient en Amérique” dévoile des choses surprenantes sur les anciennes routes de navigation.

 

Un indice fort probant nous est fourni par une analyse ADN de résidus d’origine végétale (appartenant à une pharmacie du bord) retrouvés dans les restes d’une épave romaine, récupérés le long de la côte toscane. Le naufrage du navire a dû avoir lieu entre 140 et 120 avant JC quand Rome, après avoir détruit Carthage, était devenue la seule superpuissance de la Méditerranée. Sur ce malheureux bateau devait se trouver un médecin, dont le matériel professionnel a pu être retrouvé quasi intact dans l’épave: il y avait là des fioles, des bendelettes, des outils chirurgicaux et des petites boîtes, encore fermées, qui contenaient des pastilles magnifiquement bien conservées et qui constituent aujourd’hui des éléments très précieux pour connaître la pharmacopée de l’antiquité classique.

 

Les nouvelles analyses des fragments d’ADN provenant des végétaux contenus dans les pastilles “ont confirmé l’utilisation, déjà observée, de plusieurs plantes pharmaceutiques, mais deux d’entre elles ont plongé les archéologues dans la perplexité”, a expliqué Cadelo lors de sa communication de Bologne, organisée par “Ancient World Society”. En effet, “on y trouvait de l’ibiscus, qui ne pouvait provenir que de l’Inde ou de l’Ethiopie, et, surtout, des graines de tournesol”.

 

D’après les connaissances communément admises jusqu’ici, le tournesol n’est arrivé en Europe qu’après la conquête espagnole des Amériques. Le premier à avoir décrit la fleur de tournesol fut le conquistador du Pérou, Francisco Pizzaro, qui racontait aussi que les Incas la vénéraient comme l’image de leur divinité solaire. On sait aussi que cette fleur, de dimensions imposantes et fascinante, était cultivée dans les Amériques depuis le début du premier millénaire avant notre ère. Mais on n’en avait trouvé aucune trace dans le Vieux Monde, avant son introduction par les marchands qui furent les premiers à fréquenter les “terres à peine violées” par les conquistadores ibériques.

 

Une autre curiosité s’ajoute à de nombreuses autres, que nous explique le livre de Cadelo qui dresse l’inventaire des trafics commerciaux antiques, inconnus jusqu’ici. Ainsi, cette surprenante découverte d’un bijou raffiné en verre recouvert de feuilles d’or provenant d’ateliers romains de l’ère impériale que l’on a retrouvé dans une tombe princière japonaise, non loin de Kyoto. Il s’agit d’une pièce de verroterie rehaussée d’or que des marchands marins romains emportaient avec eux pour en faire des objets d’échange. Mais on ne doit pas nécessairement penser que ce furent des marchands romains qui l’apportèrent au Japon; ce bijou a très bien pu être échangé en d’autres lieux avant d’arriver en Extrême-Orient. Par ailleurs, on a retrouvé des monnaies romaines lors de fouilles en Corée et même en Nouvelle Zélande. D’autres preuves de la présence en Amérique de navires phéniciens ou romains avaient été décrites dans la première édition du livre de Cadelo, où, entre autres choses, l’auteur dénonce notre ignorance absolue des connaissances astronomiques de nos ancêtres: par exemple, il y a, dans la “Naturalis Historia” de Pline l’Ancien une page peu lue où le naturaliste antique explique que le mouvement de rotation de la Terre autour de son propre axe peut se démontrer par le lever et le coucher du soleil toutes les vingt-quatre heures (près d’un millénaire et demi avant Copernic...). Et Aristote disait être certain que l’on pouvait atteindre l’Inde en naviguant vers l’Ouest: si Christophe Colomb avait pu monter cette page d’Aristote aux Rois catholiques d’Espagne, il se serait épargné bien du mal à les convaincre de lui confier trois caravelles.

 

(article trouvé sur le site du quotidien italien “Il Giornale”; http://www.ilgiornale.it/ ).

jeudi, 14 mars 2013

Gli antichi Romani conoscevano l'America

Gli antichi Romani conoscevano l'America, arrivano nuove prove

L'esame del Dna dimostra che ci sono anche semi di girasole nelle pastiglie ritrovate nel relitto di una nave affondata nel Tirreno nel II secolo avanti Cristo. Ma il fiore venerato dagli inca non era stato portato in Europa dai Conquistadores?

Ex: http://www.ilgiornale.it/ 

Insomma, molto prima dei vichinghi, i romani frequentarono l'America. Emergono nuovi, convincenti indizi archeologici sulle antiche frequentazioni commerciali delle Americhe da parte di navi romane: li ha illustrati, in una conferenza a margine della rassegna bolognese di cinema archeologico «Storie dal Passato», il divulgatore scientifico Elio Cadelo, con un'ampia anteprima della nuova edizione del suo libro «Quando i Romani andavano in America», ricco di sorprendenti rivelazioni sulle antiche rotte di navigazione.
Un indizio dalla robusta forza probatoria si deve alle nuove analisi del Dna dei farmaci fitoterapici rinvenuti in un relitto romano recuperato alle coste toscane: il naufragio avvenne a causa di una tempesta fra il 140 e il 120 avanti Cristo, quando Roma, distrutta Cartagine, era ormai la sola superpotenza del Mediterraneo. Su quella sfortunata nave viaggiava anche un medico, il cui corredo professionale ci è stato restituito dal relitto: fiale, bende, ferri chirurgici e scatolette che, ancora chiuse, contenevano pastiglie molto ben conservate, preziosissime per la conoscenza della farmacopea nell'antichità classica.


Le nuove analisi dei frammenti di Dna dei vegetali contenuti in quelle pastiglie «hanno confermato l'uso, già noto, di molte piante officinali, tranne due che - ha spiegato Cadelo nella sua relazione alla Rassegna, organizzata da Ancient World Society - hanno destato forte perplessità fra gli studiosi: l'ibisco, che poteva solo provenire da India o Etiopia, e, soprattutto, i semi di girasole».


Ma il girasole, secondo le cognizioni fino a ora accettate, arrivò in Europa solo dopo la conquista spagnola delle Americhe: il primo a descriverlo fu il conquistador del Perù Francisco Pizarro, raccontando che gli Inca lo veneravano come l'immagine della loro divinità solare. Di quel fiore imponente e affascinante, poi, si seppe che era coltivato nelle Americhe fin dall'inizio del primo millennio avanti Cristo. Ma ancora non se n'era trovata alcuna traccia nel Vecchio Mondo, prima della sua introduzione a opera dei mercanti per primi frequentarono le terre appena «violate» dai conquistadores iberici.


È questo un altro tassello che si aggiunge ai moltissimi altri, spiegati nel libro di Cadelo, che documentano traffici commerciali insospettati: come il sorprendente rinvenimento - altra novità - di raffinati gioielli in vetro con foglie d'oro, provenienti da botteghe romane di età imperiale: erano in una tomba principesca giapponese, non lontano da Kyoto. Si tratta di perline che i mercanti navali romani portavano spesso con sé, come oggetto di scambio. Ma non è necessario pensare che fossero proprio romani, i mercanti che le portarono fino in Giappone: quei gioielli potrebbero essere stati scambiati anche su altri approdi, prima di arrivare in Estremo Oriente. Peraltro, monete romane sono state restituite da scavi effettuati anche in Corea e perfino in Nuova Zelanda. Altre prove delle antiche frequentazioni navali americane di Fenici e Romani sono già descritte nella prima edizione del libro di Cadelo, dove - fra l'altro - si sfatano alcune sconcertanti nostre ignoranze sulle cognizioni astronomiche dei nostri antenati: per esempio, c'è una poco frequentata pagina della «Naturalis Historia» di Plinio il Vecchio dove si spiega che il moto di rotazione della Terra attorno al proprio asse è dimostrato dal sorgere e tramontare del Sole ogni 24 ore (un millennio e mezzo prima di Copernico). E Aristotele si diceva certo che fosse possibile raggiungere l'India navigando verso ovest: se Cristoforo Colombo avesse potuto esibire quella pagina aristotelica, si sarebbe risparmiato tanta fatica durata a convincere i regnanti di Spagna a concedergli le tre caravelle.

vendredi, 02 novembre 2012

Kampf um Germanien - Die Varusschlacht

Kampf um Germanien - Die Varusschlacht

 

jeudi, 18 octobre 2012

Le lieu de l'assassinat de Jules César localisé

Le lieu de l'assassinat de Jules César localisé

par Marc Mennessier (Le Figaro)

INFOGRAPHIE - Des chercheurs ont découvert la dalle érigée sur la scène du crime par l'empereur Octave Auguste.

«Tu quoque mi fili!» («Toi aussi, mon fils!»)Tels furent les derniers mots prononcés par Jules César le 15 mars de l'an 44 avant Jésus-Christ, en découvrant que son fils, Marcus Brutus, faisait partie du groupe d'assassins qui le poignardèrent à 23 reprises.
La scène, décrite un siècle plus tard par Suétone (v. 69-v. 126) dans son célèbre ouvrage Vies des douze Césars, s'est déroulée à Rome, dans la Curie de Pompée, alors que le célèbre général romain présidait une séance du Sénat.
Mercredi soir, des chercheurs du Centre supérieur de recherche scientifique espagnol (CSIC) ont apporté des précisions inédites sur cet événement, tant de fois représenté par la peinture historique, la littérature ou le cinéma, et qui se solda par la chute de la République romaine et l'avènement de l'Empire.


L'équipe dirigée par Antonio Monterroso annonce avoir découvert une structure de ciment d'environ trois mètres de large sur deux mètres de haut, qui aurait été mise en place sur le lieu exact du crime sur ordre d'Octave Auguste, fils adoptif de César à qui il succédera en devenant le premier empereur romain.

«Nous avons toujours su que Jules César a été assassiné dans la Curie de Pompée parce que c'est ce que nous transmettent les textes classiques, mais jusqu'à présent nous n'avions récupéré aucun témoignage matériel», explique Antonio Monterroso.
Selon le centre de recherche espagnol, Auguste aurait érigé cette construction monumentale, «une structure rectangulaire formée de quatre murs qui délimitent une dalle de ciment», afin de condamner l'emplacement précis où son grand-oncle et père adoptif fut victime de la conspiration de ses ennemis. À savoir, «juste au centre du fond de la Curie de Pompée, alors que Jules César présidait, assis sur une chaise, la réunion du Sénat».
Selon le Pr Jean-Michel David, historien à l'université Paris-I-Sorbonne et spécialiste de cette période, le conquérant de la Gaule se trouvait non loin de la célèbre statue de Pompée, représenté nu en vainqueur du monde, mais les travaux de ses collègues espagnols, s'ils sont confirmés, permettent de localiser la scène du crime «au mètre près». «Il convient maintenant d'expertiser le ciment de la dalle afin de s'assurer que ce matériau est bien contemporain d'Auguste», précise-t-il au Figaro.

Cette découverte s'inscrit dans le ­cadre des travaux menés par le CSIC dans la zone archéologique de Torre Argentina, dans le centre historique de Rome, où se trouve la Curie de Pompée. Avec le portique aux Cent Colonnes (Hécatostylon), ce monument fait partie de l'immense complexe (d'environ 54.000 mètres carrés) construit par Pompée en 55 avant Jésus-Christ pour commémorer ses nombreuses victoires militaires. Chaque jour, des milliers de Romains et de touristes prennent le bus ou le tram en passant, souvent sans le savoir, tout près de l'endroit où César fut assassiné, il y a très exactement 2056 ans…
 

samedi, 03 mars 2012

Y a-t-il eu une pensée navale romaine ?

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Y a-t-il eu une pensée navale romaine ?

par Jean Pagès


On ne possède pas de textes d’historiens ou de penseurs de l’Antiquité latine ou grecque qui auraient traité de cette question telle qu’on l’énonce, peut-être avec trop de facilité, de nos jours ; en Grèce, la marine avait toujours tenu une grande part dans les préoccupations des politiques, surtout après Salamine, mais n’avait donné lieu qu’à des déclarations de politique navale, sans qu’il soit fait référence à une pensée stratégique plus affinée qui restait sous-jacente. Il en allait autrement à Rome : pour le citoyen moyen, la marine jouait un rôle secondaire et était méprisée par comparaison aux services glorieux des légions. En revanche, ceux qui eurent la charge de la destinée de Rome, tant durant la période républicaine que sous l’Empire, avaient compris l’importance de la marine et Auguste le premier eut l’intuition d’une stratégie navale à l’échelle de l’empire.

Le chapitre de l’histoire de Rome concernant la marine, tant républicaine qu’impériale, a été négligé par les historiens de l’Antiquité, qui ne nous ont donné que des renseignements imparfaits. Le seul auteur qui aurait pu nous éclairer sur la pensée navale romaine de la période républicaine est Polybe (200-125 avant J.-C.) ; malheureusement la partie de son œuvre qui aurait pu nous apprendre comment, en si peu de temps, les Romains ont atteint une telle supériorité sur mer est perdue. Quant à Tite Live (64 avant à 17 après J.-C.), son Histoire n’apporte que peu de renseignements. De même les auteurs de l’époque impériale ne se sont guère intéressés à la création des flottes de Misène et de Ravenne et curieusement Auguste lui-même, qui en était le père, n’en dit rien dans l’inscription d’Ancyre considérée pourtant comme son testament. Dion Cassius (IIe/IIIe siècle après J.-C.) n’en dit pas plus. Strabon (63 avant/19 après J.-C.) a bien forgé le concept de thalassocratie (thalassokratia. géographie, 48), qui connaîtra plus tard une grande vogue, mais la perte de ses écrits historiques empêche d’apprécier l’importance qu’il lui accordait. Quant à Suétone (69 à 122 après J.-C.), il rapporte que les Romains, dans leurs préjugés tenaces contre la marine, ont estimé que l’existence de ces flottes était pour eux un fait négligeable.
Cependant, certains chercheurs contemporains ont tenté d’étudier, non pas le problème de la pensée navale romaine, mais celui de la rencontre de Rome avec la mer et ses conséquences.

La marine romaine de la République 

Les historiens modernes sont partagés sur cette question et la plupart d’entre eux répondraient sans doute par la négative. Cependant, on peut estimer que si les Romains n’ont pas eu une pensée navale structurée et exprimée, du moins au commencement, ils ont, par la force des choses, été à même de saisir l’importance de la marine de guerre chez un peuple qui leur était géographiquement proche comme les Etrusques ou encore chez les Grecs de Syracuse : les premiers n’avaient-ils pas remporté une douteuse victoire sur les Phocéens au large de la Corse en 540/535 avant notre ère et les seconds la victoire d’Himère sur les Puniques en 480, l’année de Salamine ? Jacques Heurgon remarque qu’« on entrevoit en particulier que Rome, avant de se doter à Ostie d’un port qui lui fût propre, utilisa la flotte de Caeré aux fins de sa politique maritime naissante » (1). De même, les Romains n’étaient pas sans connaître l’activité des marines marchandes des cités grecques de Campanie et de Grande Grèce, Naples et Tarente, ainsi que les succès des escadres syracusaines contre les Puniques.
L’événement le plus ancien de l’histoire de la marine romaine remonte à 394, année au cours de laquelle un navire romain se rendant à Delphes avec une ambassade religieuse fut arraisonné et capturé par des navires des îles Lipari et emmené dans ces îles ; les gens de Lipari avaient pris ce navire pour un pirate étrusque. Après enquête, les Romains purent continuer leur voyage, escortés par des navires de guerre lipariens jusqu’à Delphes et revenir ensuite à Rome (Diodore, XIV, 93).
Il est attesté que dès le début du IVe siècle, à une date indéterminée, Rome a entrepris une colonisation outre-mer (2). Les textes laissent entendre que Rome « agissait en association avec Pyrgi, le port de Caeré ou mieux utilisait ses flottes ». Serait-ce cette expédition que, d’après Théophraste Rome fit « autrefois » en Corse avec 25 navires ? De son côté, Diodore (XV, 27, 24) parle de 500 colons envoyés par elle en Sardaigne en 377.
En 349, des pirates grecs s’attaquèrent à la côte du Latium. Rome, ne devant pas posséder de forces navales à cette époque, se contenta d’envoyer des troupes qui s’opposèrent avec succès au débarquement ; les Grecs, à court de vivres et surtout d’eau, abandonnèrent l’opération (Tite Live, VII, 25, 3-4 ; 26, 10-15).
Mais c’est l’exemple de la prise d’Antium (aujourd’hui Porto d’Anzio), au sud de Rome en 348, qui est le plus typique. Antium était un repaire de pirates étrusques que les Romains auraient dû réduire par une action navale ; ce furent des légionnaires qui s’emparèrent de la flotte d’Antium ; cette soi-disant victoire sur mer fut à l’origine de la colonne rostrale décorée d’éperons de navires ennemis pris par des soldats ! (Tite Live, VIII, 13 et 14)
Malgré cela, Rome apparaît comme une petite puissance maritime naissante à cette époque : le renouvellement de l’alliance carthaginoise en 348, l’enrôlement des pirates d’Anzio, la fondation d’une colonie à Ostie à l’embouchure du Tibre (ostium Tiberis) dont elle fera un port en 335, l’occupation militaire de l’île de Ponza au large des côtes de Campanie montrent que le destin de Rome allait se jouer désormais autant sur mer que sur terre (3).
A partir de 311, Rome nomme chaque année deux magistrats chargés de la marine (duoviri navales) qui seront chacun à la tête d’une petite escadre de dix navires de guerre pour lutter contre la piraterie en Tyrrhénienne. Ces deux escadres n’eurent pas grand succès : l’une d’elles tenta un débarquement contre Nuceria, près de Naples, qui échoua, la ville fut prise par des troupes de terre ; dans le conflit entre Rome et Tarente, une de ces deux escadres fut sévèrement malmenée par les forces navales adverses en 282 (4).
Les types de navires de guerre employés par les Romains, dans leurs escadres commandées par les duoviri navales, ne nous sont pas connus ; on peut supposer raisonnablement que ce devaient être des trières (à trois rangs de rames) et des pentécontères (à cinquante rameurs). Ainsi on sait qu’en 264, au début de la première guerre punique, Rome n’avait plus de marine et dut faire appel à ses socii navales, les cités de Grande Grèce et de Campanie  : Tarente, Locres, Vélia, Naples, pour mettre à sa disposition des trières et des pentécontères permettant à ses troupes de franchir le détroit de Messine (Polybe, I, 20).
En définitive, dans les années précédant la première guerre punique, Rome ne possède qu’une faible marine militaire et n’a qu’une très mince expérience maritime, toute occupée qu’elle est par la conquête de la péninsule, conquête dans laquelle elle réussit mieux que sur mer, avec son esprit « terrien ».
J.H. Thiel a étudié d’une manière approfondie les premières actions sur mer des Romains et les juge avec trop de sévérité et surtout sans nuances quand il dit qu’ils étaient de « vrais terriens » et des « marins d’eau douce ». Jusqu’à la première guerre punique, et même plus tard, ils ont été des marins maladroits et de piètres tacticiens, malgré leurs victoires acquises grâce à la discipline plutôt qu’à la connaissance intime de la mer et à leur sens tactique. « Le caractère général de l’histoire romaine au cours de cette période (jusqu’à la première guerre punique) ne laisse que peu de place pour une quelconque action sur mer de leur part : ce n’est pas l’histoire d’une puissance navale, mais celle d’une puissance continentale caractéristique, celle d’un peuple d’agriculteurs qui a conquis, patiemment et obstinément, toute l’Italie par l’intérieur, sans qu’apparaisse une seule fois la marine de guerre dans le tableau » (5).
Selon Jean Rougé, cette conception « terrienne » de la puissance maritime a conduit les Romains, qui n’avaient vraisemblablement pas profité de l’expérience de marins des cités de Grande Grèce, à défendre leur territoire du côté de la mer par une action purement terrestre de troupes légionnaires ou par « l’intermédiaire des colonies maritimes situées dans des positions stratégiques ». Cet auteur ajoute que « le témoignage de Polybe concorde mal avec une certaine idée que l’on a tendance à se faire actuellement de la puissance maritime avant les guerres puniques » (6). Cela a été vrai jusqu’à la première guerre punique et non au-delà.
Jacques Heurgon remarque que les intérêts navals de Rome s’affirmèrent aux environs des années 306-302 « par plusieurs faits diplomatiques importants ; c’est à cette époque que Polybe fait remonter l’amitié de Rome et de Rhodes (XXX, 5, 6), le troisième traité conclu avec Carthage en 306 définissant les zones respectives des deux parties excluant Rome de la Sicile et Carthage de l’Italie… L’accord intervenu vers 302 entre Rome et Tarente où Rome s’engageait à ne pas dépasser vers le nord le cap Lacinien… » (7).
La victoire de Rome sur Pyrrhus en 275 et son alliance avec Tarente en 272, qui fut, comme Naples, astreinte à lui fournir en temps de guerre des navires et des équipages, firent d’elle une puissance méditerranéenne. Des quaestores classici furent créés en 267 ; ils n’étaient pas destinés à un commandement dans une flotte encore inexistante, mais plutôt à contrôler la mobilisation des escadres des cités alliées de Rome, les socii navales (8).
On sait d’après Polybe comment les Romains construisirent une flotte de 100 quinquérèmes et de 20 trières en prenant modèle, pour les premières, sur une quinquérème punique échouée et tombée entre leurs mains. Polybe nous présente la capture de la quinquérème punique comme l’événement qui détermina les Romains à combattre sur mer les Puniques.
Si donc cet incident ne s’était pas produit, il est clair que, du fait de leur inexpérience, les Romains n’auraient jamais eu les moyens de réaliser leurs desseins (I, 20).
Aux yeux de certains historiens modernes comme Gilbert Charles-Picard, qui le qualifie d’« historiette », cet événement de la capture de la galère a paru suspect ; quelle que soit la genèse de la flotte romaine, la décision de la construire dénote chez les Romains une ferme résolution de combattre les Puniques sur leur propre terrain avec leur arme : la quinquérème, dont ils ont la maîtrise. Ce n’est pas le fruit d’une pensée navale, plutôt une forme de stratégie primaire mais efficace, et qui n’est pas le moindre élément constitutif de cette pensée. En outre, la méthode choisie par le commandement romain pour l’entraînement des équipes de nage des quinquérèmes montre également une systématisation digne des marines « matérialistes » du XXe siècle (9). Comme le remarque Jean Rougé, « Il est évident que le récit de Polybe, tout à la gloire de la détermination et de l’esprit d’initiative de Rome, doit être forcément enjolivé, car pour ses équipages Rome disposait de ses socii navales, de ses alliés maritimes » (10).
L’idée qui ressort des études des historiens contemporains est que les essais initiaux de l’activité navale des Romains ne doivent être ni exagérés, ni minimisés, et ils s’accordent pour reconnaître avec Polybe que c’est dans son récit qu’on verra l’élévation et la hardiesse du tempérament romain (…car) « il ne fallait pas laisser ignorer quand, comment et pourquoi les Romains se sont lancés pour la première fois sur mer… » (I, 20).
Carthage, face à la petite puissance continentale romaine, exerce son hégémonie entre les Syrtes et Gibraltar, s’est installée en Sicile et en Sardaigne, exploite les minerais du sud de l’Espagne. C’est une cité de commerçants et surtout de rouliers des mers. Sa flotte de guerre est puissante et combative. Carthage sera l’ennemie principale de Rome et l’obstacle majeur à l’impérialisme romain entre le IIIe et le milieu du IIe siècle.
A la lumière des remarques de Thiel (11) dans son analyse de la première guerre punique, il est aisé de comprendre pourquoi la pensée navale romaine a eu si peu de consistance et aussi pourquoi une compétition entre les deux marines était improbable. En effet, l’auteur, observant minutieusement la stratégie des deux adversaires par le biais des événements de la guerre, porte un jugement sur chacun d’eux :
1) Rome semble à première vue avoir une stratégie navale peu solide, incohérente et surprenante ; en réalité, ce n’est pas uniquement le manque de traditions maritimes qui est en cause, mais la nécessité ; le Sénat romain n’était pas libre de faire ce qui lui paraissait être le meilleur, car il avait à compter avec l’opinion publique, romaine d’abord et plus généralement avec celle des cités italiennes : « La mer était loin d’être familière aux Romains et surtout, ils redoutaient le combat naval ; si on décidait de construire des navires, c’était à Rome d’en supporter la dépense et aux Romains à servir de soldats de marine sur les bâtiments de la flotte ; c’était aux alliés italiens de Rome de fournir la plus grande partie des équipages et des rameurs » (12).
Thiel estime qu’en 259, un an après la victoire de Mylae, les Romains auraient pu lancer une opération de débarquement en Afrique ; cela n’a pas été possible puisqu’il fallait une nouvelle flotte plus nombreuse que la précédente. Le Sénat n’aurait pu convaincre les Romains peu connaisseurs des choses navales. La construction d’une nouvelle flotte après une victoire leur aurait paru une absurdité.
Toutefois, en 257-256, les Romains construisirent une flotte bien plus puissante que celle de 260, ce qui représente le deuxième grand programme de construction de toute la guerre qui dura de 264 à 241. Enfin, ce fut la mise en service de la flotte, entièrement neuve et très efficace, avant la victoire des îles Aegades sous le commandement d’un amiral exceptionnel, le consul Caius Lutatius Catulus.
Les énormes pertes en vies humaines et en bâtiments, dues aux actions militaires ou aux tempêtes, décimèrent littéralement la population adulte mâle à Rome : Thiel parle de 20% entre 264 et 246, soit 50.000 hommes ; Rome alla jusqu’à ne plus reparaître sur mer entre 249 et 243 (13).
2) Au sujet de Carthage, sans entrer dans les erreurs qu’elle commit dans cette guerre, on peut dire qu’elle possédait une flotte puissante et efficace et des amiraux habiles et courageux.
Cependant, les Carthaginois souffraient d’une faiblesse qui les poussait à la facilité, enclins qu’ils étaient à prendre la voie la moins ardue et à sous-estimer leurs adversaires. Carthage, il ne faut pas l’oublier, était une cité de marchands paisibles, qui désiraient éviter les guerres chaque fois que c’était possible ou bien relâchaient leurs efforts, en temps de guerre, quand le danger était momentanément écarté. Thiel parle de la « quiétude punique », une sorte de torpeur, de paralysie qui se manifeste par une apathie leur faisant manquer des occasions et perdre un conflit dans lequel ils auraient dû triompher.
Par ailleurs, Carthage ne pouvait à la fois entretenir une grande flotte et une armée de nombreux mercenaires ; une conséquence désastreuse de cet état de fait fut la défaite d’une flotte punique mal armée, surchargée, avec des équipages peu entraînés, face aux forces navales romaines en excellente condition au large des îles Aegades en 241.
Rome, à la fin de la première guerre punique, se trouva être la seule puissance navale de la Méditerranée occidentale ; elle joua son rôle de « fleet in being » au cours des 60 années qui séparent la bataille des îles Aegades (241) du début de la deuxième guerre punique. De plus, sans qu’elle eût une quelconque volonté d’expansion maritime, avec la possession de la Sardaigne et de la Corse, Rome commença à se constituer, à partir de la Tyrrhénienne, un embryon de mare nostrum, plutôt comme protection de son territoire que comme zone d’opérations navales. Thiel remarque qu’au cours du IIe siècle « la puissance navale romaine montra de plus en plus des symptômes de faiblesse alors que le centre de gravité se déplaçait vers les excellentes marines de Pergame et surtout de Rhodes ; dans la guerre contre Antiochos, ce furent les forces navales rhodiennes qui gagnèrent les batailles ».
Thiel peut conclure : « Avant le règne d ‘Auguste, il n’était pas question pour Rome de posséder une marine de guerre permanente ; quand on ne craignait pas de guerre navale, les Romains n’entretenaient pas de navires de guerre armés…, Pendant près d’un siècle et exactement pendant la période de l’histoire de Rome qui correspond à sa plus grande expansion, la marine de guerre romaine fut presque inexistante » (14).
Les flottes des derniers siècles de la République furent très différentes de celles des guerres puniques. Depuis ses débuts, à la fin du IVe siècle, l’activité sur mer des Romains avait beaucoup profité de l’expérience des Grecs et des Etrusques ; toutefois, il faut rappeler que pendant les guerres puniques, c’est Rome qui a armé en partie ses escadres avec ses propres citoyens, a construit ses navires avec ses propres deniers et a mis à leur tête un consul ou un préteur romain. Cependant, à partir de 200 avant J.-C., Rome fit reposer sa puissance maritime sur ses alliés grecs et surtout sur les forces navales rhodiennes, dont l’entraînement était exceptionnel.
Les cités alliées d’Ionie, de Phénicie, de Pamphylie et de Syrie fournirent la plupart des navires des escadres romaines, à l’exception de ceux que Rome construisait, qui étaient armés par des équipages de ces cités, si bien que les techniques navales grecques et orientales s’imposèrent de plus en plus dans la marine romaine à l’époque de la guerre sociale (90-88). Quant aux commandants en chef de ces flottes, qui étaient parfois des Grecs, Rome les subordonnait aux commandants des troupes de terre, preuve qu’elle n’avait pas entièrement compris le rôle d’une force navale.
Ces dispositions n’empêchèrent pas Mithridate, roi du Pont, lors de la première guerre qu’il mena contre Rome entre 89 et 85 avant J.-C., de s’emparer de la maîtrise de la mer Egée, ce qui entraîna, après sa défaite en 84, l’apparition d’une flotte permanente pour la première fois dans l’histoire de la marine romaine et par conséquent l’abandon du désarmement des forces navales après une victoire, ce qui avait été courant par le passé. Cette évolution laisse présager qu’une pensée navale est en gestation et qu’un embryon de marine impériale est en place, ce qui permet à C.G. Starr de dire que « si l’on demande à quelqu’un de citer un événement qui marque les débuts de la marine impériale romaine, cet événement serait à coup sûr celui de la première guerre de Rome contre Mithridate » (15).
Une autre conséquence de cette évolution fut la mise en place par Sylla, probablement en 85, d’un plan de défense des côtes de l’Asie mineure : des cités maritimes de cette région devaient construire des navires de guerre et les conserver en réserve pour une utilisation future ; cela permit à Rome d’avoir la maîtrise de la mer pendant la troisième et dernière guerre contre Mithridate (83-82) ; C.G. Starr observe qu’il était difficile pour l’Etat romain de poursuivre la réalisation d’un plan à cause des changements annuels de ceux qui avaient la responsabilité de son exécution.
Cette évolution se poursuivit quand Pompée, en 67 avant J.-C., triompha en trois mois des pirates qui infestaient presque toutes les eaux méditerranéennes. Selon Pline (Histoire naturelle, VII, 98) Pompée aurait « redonné la maîtrise de la mer à Rome » qui l’avait perdue au point que des pirates eurent l’audace de couler une flotte consulaire dans le port même d’Ostie (Plutarque, Pompée, XXXVIII à XLIV).
C’est l’époque où le comportement de Rome dans l’exercice de la maîtrise de la mer va commencer à se préciser et où la marine romaine va jouer un rôle capital dans les guerres civiles et après elles dans l’Empire. Les guerres contre Mithridate et la rapide campagne contre les pirates avaient montré l’importance de la puissance navale oubliée depuis les guerres puniques. F.E. Adcock remarque que « dans sa campagne la plus difficile, Pompée s’appuyait sur la puissance navale et César faisait confiance à la mer ; dans les situations graves, le dernier mot resta à la mer » (16). Il fait allusion aux opérations autour de Dyrrachium (Durazzo) où la très puissante flotte de Pompée fut mise en échec par les forces césariennes. On possède là une preuve supplémentaire que l’exercice de la maîtrise de la mer était considéré par les généraux romains comme un gage de victoire.
Pendant la guerre civile, les flottes devinrent de plus en plus puissantes ; Pompée, en faisant appel aux cités maritimes d’Asie, réussit à rassembler une force d’environ 300 navires au début de 48 ; ce sera Sextus Pompée, fils du grand Pompée, qui, possédant la maitrise de la Méditerranée occidentale, s’attaquera au ravitaillement en grains de Rome et fera des descentes sur les côtes italiennes pour un pillage en règle entre 42 et 40 avant J.-C.
En 38, le futur Auguste et Agrippa, son conseiller militaire et technique, vont construire une flotte de 400 navires qui triomphera de celles de Sextus Pompée à Mylae en 37, à Nauloque en 36 et finalement à Actium en 31. Cette force navale sera le noyau de la future flotte impériale. Ne doit-on pas voir dans cette œuvre une ébauche déjà bien avancée d’une pensée navale où Octave, le futur Auguste, représente la part politique et stratégique et Agrippa la collaboration du technicien et surtout du tacticien ; n’a-t-il pas été l’inventeur du harpax, espèce de grappin lancé par catapulte et ne fut-il pas honoré par le nouveau César qui lui donna une couronne navale, jamais jusqu’à ce jour octroyée à quiconque ? (Tite Live, CXXIX).
A cette flotte, il fallait une base qui, curieusement, fut choisie avant 37 dans la Provincia, à Forum Julii (Fréjus) où une partie de la flotte fut construite ; un port militaire fut créé plus près de Rome à Portus Julius, dans le golfe de Puteoli (Pouzzoles), et un centre d’entraînement dans le lac Averne, qui occupe un cratère parfaitement abrité de tous les vents
La pensée navale embryonnaire de l’époque républicaine a pu au début être la conséquence d’une conception rationnelle de la division des tâches dans un conflit ; elle laissait aux alliés des cités maritimes le soin des opérations navales alors que les opérations militaires terrestres revenaient de droit aux Romains. La même division des tâches apparut au XXe siècle dans les conflits où les hégémonies maritimes de la Grande-Bretagne ou des Etats-Unis se trouvaient impliquées.

La marine impériale romaine

Il faut citer l’opinion originale de C.G. Starr (17) à propos des conséquences de la bataille d’Actium :
« Pour l’histoire de la marine impériale romaine, Actium en soi n’est qu’un événement insignifiant… Ce dernier combat naval des guerres civiles, l’ultime grand conflit en Méditerranée jusqu’à celui qui opposera sur mer Constantin à Licinius en 324, est plus un prélude que les premières notes d’une ouverture dans l’histoire de la marine impériale romaine. La mission historique de cette marine n’était pas de livrer des batailles mais de les rendre impossibles ».
Végèce, dans son Art militaire (4, 31), précise les raisons de l’existence de la marine impériale :
« Le peuple romain a toujours eu une flotte prête, pour montrer et défendre sa puissance ; il ne l’organisait pas pour faire face aux exigences d’un conflit mais pour ne jamais être pris au dépourvu ».
A la mort d’Auguste en 14 après J.-C., outre le port de Forum Julii qui n’abritait qu’une flottille et devenait une base secondaire, les forces navales romaines étaient partagées en deux flottes, l’une en Tyrrhénienne avec Misène, près de Pouzzoles, pour base, la Classis Misenensis, et la seconde en Adriatique attachée au port de Ravenne, la Classis Ravennas. La création de la flotte de Misène remonterait à une date comprise entre 27 et 15 avant J.-C., alors que celle de Ravenne daterait d’environ 24 avant J.-C. Cette répartition des forces navales due à Octave et à Agrippa répondait sans doute à un plan stratégique conforme à une pensée navale plus solide.
- La flotte de la Tyrrhénienne, dont l’état-major resta pendant quatre siècles à Misène, possédait des bases secondaires à Puteoli (Pouzzoles), Ostie (à l’embouchure du Tibre), Centumcellae (près de Civitavecchia), Mariana et Aléria en Corse, Carales en Sardaigne (Cagliari). La flotte surveillait la Tyrrhénienne et plus particulièrement les îles turbulentes de Corse et de Sardaigne. En outre, elle étendait son contrôle sur tout le bassin occidental de la Méditerranée : Gaules, Espagne, Maurétanie (Végèce, 4, 31). Mais bien entendu, elle opérait de concert avec la flotte de Ravenne, qui lui était sans doute subordonnée, en Méditerranée orientale depuis la Libye jusqu’à la mer Egée. Elle détachait des flottilles dans certains ports de ces régions comme à Séleucie de Syrie pendant les guerres contre les Parthes.
- La flotte de l’Adriatique basée à Ravenne avait pour mission de surveiller la côte dalmate où elle avait une base secondaire à Salona (Split) capitale de la Dalmatie et une autre à Brundisium (Brindisi) pour assurer les relations des officiels avec Dyrrachium (Durazzo/ Durrès) ; la station d’Ancône n’est pas sûre, en revanche celle d’Aquileia, dans le golfe de Trieste est attestée. Hors de l’Adriatique, la flotte de Ravenne prêtait son appui à celle de Misène dans le bassin oriental ; des unités de l’Adriatique faisaient escale dans les ports de la Tyrrhénienne et tout particulièrement à Centumcellae qui devint leur base vers 100 après J.-C. (18)
C.G. Starr note que probablement Rome ne perdait pas de vue la question de son approvisionnement en bois de construction navale car la péninsule n’est pas riche en forêts ; il pense que les stations navales de Mariana et d’Aléria en Corse et le port de Ravenne sur l’Adriatique, relié au Pô, contrôlaient ces trafics du bois destiné aux chantiers de Misène et de Ravenne. Il est possible que la flottille de Syrie basée à Séleucie ait rempli la même tâche, les forêts de la région produisant les essences que Végèce (4, 34) estime convenables pour la construction navale : cyprès, pin, mélèze et sapin. Rostovtseff indique que l’empereur était propriétaire du sol de la Corse et sans doute des forêts ; d’où l’importance du port d’Aléria pour le contrôle du transport du bois de construction navale (19). Cette importante question stratégique ne pouvait recevoir de solution qu’inspirée par une véritable pensée navale.
Les escadres provinciales et les flottilles fluviales faisaient également partie des forces navales impériales au même titre que les flottes de Misène et de Ravenne. L’organisation et la défense de l’empire exigeaient des forces indépendantes dans les provinces : Syrie, Egypte, Maurétanie, et aussi en mer Noire et dans la Manche ; en outre des flottilles fluviales surveillaient le Rhin et le Danube : celles de Mésie et de Pannonie sur le Danube et ses affluents et celle de Germanie sur le Rhin. Certaines de ces formations remontent à l’époque augustéenne, comme l’escadre d’Egypte basée à Alexandrie et peut-être, mais c’est moins sûr, celle de Syrie attachée au port de Séleucie.
La marine impériale, telle qu’Auguste et Agrippa l’avaient conçue et telle que la considérèrent les empereurs suivants, était destinée, contrairement aux flottes républicaines toujours improvisées, à entrer en action dans les plus brefs délais dès l’apparition d’un perturbateur. Or, il n’y eut pas de perturbateur extérieur avant le IIIe siècle, avec l’invasion des Goths, et surtout avant le Ve siècle, avec l’arrivée des Vandales.
Les missions de la marine impériale permanente et professionnelle n’étaient pas uniquement dissuasives comme l’avaient sans doute prévu Auguste et Agrippa, elles étaient avant tout offensives dans l’esprit romain ; cet aspect a été perdu de vue par certains historiens modernes qui ont eu tendance à minimiser l’importance stratégique de la flotte (20). De même, contrairement à ce qui a été dit, l’action des forces navales n’a pas été policière mais militaire. Il s’agissait d’étendre la maîtrise des mers à toute la Méditerranée, qui assurait l’unité de l’empire et la protection de ses communications maritimes (21).
Les forces navales impériales ont continué tout au long des siècles à maintenir leur niveau d’entraînement en vue d’une bataille d’escadre qui ne vint jamais ; les flottes de Misène et de Ravenne et les autres faisaient des patrouilles, opéraient des débarquements en liaison avec les forces terrestres, assuraient le transport des troupes, participaient au ravitaillement des armées, n’escortaient pas les navires de commerce, mais luttaient contre les restants de piraterie. Quant aux forces fluviales, elles avaient un rôle très important, car elles permettaient aux troupes de traverser un fleuve, d’opérer des débarquements sur les arrières de l’ennemi, d’assurer la logistique des stations tenues le long des fleuves, bref de contribuer à la défense du limes (22) ; la colonne Trajane nous donne une représentation vivante de ce que furent les opérations des flottilles fluviales.
En outre, la flotte offrait un moyen de transport aux personnages officiels qui rejoignaient un poste ou qui accomplissaient une mission : Agrippa se fit accompagner en 14 avant J.-C. par une escadre lors d’une tournée d’inspection des ports d’Asie avec tout le décorum de l’amiral en mission qui montre le pavillon de son pays (Flavius Josèphe, XVI, 21). Tacite (Annales, II, 53ss) rapporte que Germanicus entreprit un voyage semblable en 18 après J.-C.
D’autre part, des navires rapides de la flotte transportaient les ordres et les dépêches depuis Rome jusqu’aux plus lointaines provinces accessibles par mer ; la flotte avait le monopole de l’acheminement du courrier officiel, même par terre, puisque c’étaient des marins qui assuraient la liaison entre Rome et les ports de la péninsule.
L’empereur Claude (41-54) continua la politique navale d’Auguste et probablement créa d’autres escadres provinciales ; ce sera Trajan (98-117) à l’époque de la plus grande extension de l’empire, qui donnera une expression définitive à l’organisation des forces navales qui restera en vigueur jusqu’au bas-Empire.
Il faut dire un mot du matériel naval qui constituait les flottes impériales et dont l’évolution depuis les types de la période républicaine est l’expression d’une pensée navale « matérialiste ». Pour leurs forces navales, Auguste et surtout Agrippa se contentèrent d’unités plus légères réclamant moins d’hommes d’équipages que les unités de la flotte de Pompée et donc moins coûteuses.
L’unique héxère des forces impériales, une « 6″, servait de navire amiral à la flotte de Misène ; elle avait 3 rameurs sur le même aviron à un niveau supérieur et 3 autres au niveau inférieur ; les autres unités étaient des quinquérèmes, des « 5″, des quadrirèmes, des « 4″, des trières, des « 3″ directement issues des trières grecques et enfin des liburnes qu’Agrippa incorpora et qui provenaient d’un modèle de navire léger utilisé par les pirates de la côte nord de l’Illyrie : la Liburnie.
Agrippa avait eu soin d’améliorer l’artillerie mécanique embarquée ainsi que les divers projectiles utilisant le feu, les traits, les flèches et le harpax dont il était l’inventeur. La marine byzantine sera l’héritière directe de la marine impériale romaine.
Ces unités, surtout les plus importantes, ne pouvaient longtemps tenir la mer par suite des contraintes qui les obligeaient à relâcher souvent pour faire de l’eau et des vivres ce qui imposait aux forces navales d’avoir un réseau d’escales. Les navires étaient peu aptes aux escortes de convois, à la tenue d’un blocus et aux patrouilles de longue durée, à moins que ces dernières ne soient faites à la voile.
Pour C. de la Berge « la création d’Auguste avait été, dès le début, fortement méditée et convenablement appropriée, tant aux besoins publics qu’aux instincts et aux intérêts des populations » (23).
*********************
Tout ce qui vient d’être dit prouve que les Romains ont eu assez tôt conscience de l’importance stratégique de la mer, bien qu’ils aient été relativement étrangers à cet élément ; par la suite une pensée navale relativement évoluée a pu naître, permettant l’organisation et la mise en œuvre des forces navales impériales qui, pendant plus de trois siècles, ne connurent que le temps de paix en l’absence d’adversaires à leur taille : il n’y avait aucune force adverse à dissuader. Rome ne peut être considérée comme une thalassocratie car sa maîtrise de la Méditerranée a d’abord résulté du contrôle de la totalité de ses côtes.
Les bases et escales de la Marine impériale romaine d’Auguste à Marc Aurèle de 14 avant J.C. à 161 après J.C.
1 - Forum Julii (Fréjus) base navale jusqu’en 70 ap. J.-C.
2 -- Misène, base de la flotte de Misène à partir de 12 avant J.-C.
3 -- Ravenne, base de la Classis Ravennas à partir de 39 avant J.-C.
4 -- Alexandrie, base de la Classis Alexandrina à partir d’Auguste.
5 -- Séleucie, base de la Classis Syriaca, à partir de Vespasien (69-79) ( ?).
6 -- Trébizonde, base de la Classis Pontica, à partir de Claude, en 47-48 ou mieux de Néron (54-68).
7 -- Boulogne/Douvres, bases de la Classis Britannica, à partir de Claude (41-54) ou même avant.
8 -- Ostie, port de Rome, était un des principaux arsenaux de la marine républicaine ; devient une base secondaire de la marine impériale au moins depuis le règne de Claude.
9 -- Centumcellae (Civitavecchia), base secondaire ; relais à la fois vers la Sardaigne et la Corse.
10 -- Aleria, base secondaire ; contrôle le commerce des bois de l’île.
11 -- Cagliari, base secondaire.
12 -- Brindes (Brindisi).
13 -- Aquilea.
14 -- Salone (Split).
15 -- Athènes/le Pirée servait encore d’escale pour la marine républicaine ; sous l’empire elle joua le rôle de relais pour les flottes de Ravenne et de Misène.
16 -- Ephèse ; c’est là qu’Antoine rassembla sa flotte avant Actium ; ce port a été actif tout au long de l’empire jouant un rôle très important dans le transit des troupes, notamment pendant la guerre des Parthes sous Trajan et Marc-Aurèle en 114 et en 161.
17 -- Cyzique, base d’une division de la flotte de Misène à la fin du premier ou début du second ; plus tard a pu être la base de la Classis Pontica.
18 -- Césarée de Mauritanie (Cherchel) ; aurait été la base d’une flottille indigène sous Juba II avant l’annexion de la Maurétanie en 40 après J.-C. ; il n’est pas sûr qu ce port ait été une base de la marine impériale.
19 -- Cologne/Alteburg semble avoir été le principal port de la Classis Germanica : sa création remonterait à Claude (41-54). Elle disposait probablement de nombreux autres ports sur le Rhin inférieur.
20 -- Carnuntum aurait été une base de la Classis Pannonica où celle-ci devait avoir une flottille permanente détachée de sa base principale de Taurunum.
21 -- Brigetio, autre station fluviale de la Classis Pannonica.
22 -- Taurunum, près de Belgrade, est la grande base navale attestée de la Classis Pannonica depuis Vespasien (69-79).
23 -- Ratiaria, aurait été une des bases de la Classis Mœsica en aval des Portes de Fer où commençait sa zone de patrouille ; elle remonterait à l’époque augustéenne.
24 -- Noviodunum (Isaaccea) est la grande base de la Classis Mœsica dont la création date également de Vespasien ; cette flotte devait aussi contrôler la façade maritime de la Mésie.
25 -- Istrus, port fréquenté par la Classis Mœsica.
26 -- Chersonèse Taurique, port fréquenté par la Classis Mœsica sous Néron (54-68) à l’époque de la guerre d’Arménie.
27 -- Panticapée est un port où le passage de la flotte est attesté.
28 -- Sinope aurait été une base pour les escadres romaines et alliées ; elle était fréquentée en 14 avant J.-C. par Agrippa et le port servait d’abri à une flotte sous Trajan vers 115.
29 -- Calchedon face à Byzance, a servi à plusieurs reprises de base aux escadres impériales.
30 -- Périnthe a joué un rôle semblable à celui de Calchedon et plus particulièrement aussi de base de transit pour les troupes en provenance du front du Danube et destinées à l’Orient.
31 -- Thessalonique (Salonique) a reçu des escadres appartenant à la flotte de Misène dès le Haut Empire ; ce port constituait une escale vers l’Orient.
32 -- Palerme a occasionnellement reçu des escadres de Misène se rendant vers l’Espagne ou vers l’Afrique.
33 -- Syracuse a été une escale pour les escadres à destination de l’Orient.
 A -- Classis Germanica ; B -- Classis Pannonica ; C -- Classis Mœsica
Jean Pagès  http://www.theatrum-belli.com
Source : M. Reddé, Mare Nostrum, les infrastructures, le dispositif et l’histoire de la marine militaire sous l’empire romain, Ecole française de Rome, 1986.
Notes :
1. Jacques Heurgon, Rome et la Méditerranée occidentale jusqu’aux guerres puniques, PUF, 1980, pp . 110.
2. Jacques Heurgon, op. cit., p. 301.
3. Jacques Heurgon, op. cit., p. 337.
4. André Piganiol, La conquête romaine, Alcan, 1930, p. 132 ; J.H. Thiel, A History of Roman Sea-Power before the Second Punic War, North Holland Publishing, Amsterdam, 1954.
5. J.H. Thiel, op. cit., p. 46. E. Pais, Storia critica di Roma durante i primi secoli, E. Loeschner puis P. Maglione et C. Strini, Rome, 1918-1920, l’auteur pense que malgré la psychologie « continentale » du peuple romain, Rome « fut aussi une grande puissance maritime », « sans maîtrise de la mer, Rome n’aurait ni conquis l’empire, ni pu le conserver ».
6. Jean Rougé, La marine dans l’Antiquité, PUF, 1975, p. 111s.
7. Jacques Heurgon, op. cit., p. 337. Le cap Lacinien est aujourd’hui le cap Rizzuto à l’entrée du golfe de Tarente.
8. J.H. Thiel, op. cit., p. 160 ; Jean Rougé, op. cit., p. 112.
9. La marine marchande américaine pendant la seconde guerre mondiale a créé à terre un centre d’entraînement pour les états-majors et les marins qui serviront sur les « Liberty-ships » où ce personnel faisait le quart et vivait absolument comme à la mer.
10. Jean Rougé, op. cit., p. 113.
11. J.H. Thiel, op. cit., pp. 320 ss.
12. J.H. Thiel, op. cit., p. 325.
13. J.H. Thiel, op. cit., pp. 328-329.
14. J.H. Thiel, Studies on the History of Roman Sea-Power in Republican Times, Amsterdam, North Holland Publishing, 1946, p. 131
15. C.G. Starr, The Roman Imperial Navy 31 BC-AD 324. Westport, Connecticut, Greenwood Press, 1975, p. 1.
16. Cité par C.G. Starr, op. cit., p. 3.
17. C.G. Starr, op. cit., p. 4 ss.
18. C.G. Starr, op. cit., pp. 13-24.
19. C. de la Berge, « Etudes sur l’organisation des flottes romaines », Bulletin épigraphique, tome 6, 1886, p. 227 ; M.I. Rostovtseff, Histoire économique et sociale de l’empire romain, Laffont, 1988, p.165.
20. A. Piganiol a consacré une demi-page à la marine dans son manuel d’histoire de l’empire romain !
21. C.G. Starr, op. cit., pp. 106 ss.
22. C.G. Starr, op. cit., pp.124 ss.
23. C. de la Berge, art. cit., p. 3.
Source du texte : STRATISC.ORG

mardi, 22 novembre 2011

Il culto della Dea Feronia, tra storia e mistero

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Il culto della Dea Feronia, tra storia e mistero

Divinità dai molteplici aspetti, posta a tutela dei boschi e degli animali selvaggi, i malati ed addirittura gli schiavi liberati

Umberto Bianchi

Ex: http://rinascita.eu/

Passando per l’Autostrada del Sole in direzione Firenze, poco prima di arrivare al casello di uscita per la cittadina di Fiano romano, potrete notare delle indicazioni che vi avvisano della presenza di “Lucus Feroniae”, un sito archeologico la cui silenziosa presenza sembra lì stonare vistosamente con l’andirivieni di automobili e con il coacervo di fabbrichette, depositi e centri residenziali che puntellano la campagna lì intorno. Un sito interamente dedicato ad una figura, quella della Dea Feronia, tra le meno conosciute e pubblicizzate tra quelle del pantheon delle divinità italico-romane, ma non per questo, meno importante.
A lei era dedicato un importante santuario sul Monte Soratte oltre a quello di Trebula Mutuesca, Terracina, Praeneste, nella regione dell’Etruria e presso l’area sacra di Largo Argentina, in Roma. Una figura di non poco conto, quindi. Cominciamo con il dire che Feronia appartiene a quelle figure divine di transizione, a mezza strada tra il mondo pre-indoeuropeo e quello indoeuropeo, propriamente detto. Dea dai molteplici aspetti, è posta a tutela di quella natura selvaggia, di cui protegge i boschi, gli animali selvaggi (da cui “ferae”-“feronia”), le messi, i malati ed addirittura gli schiavi liberati. Un aspetto, quest’ultimo, che inconsueto nella sua apparenza è invece strettamente legato alla sua natura di divinità preposta ai mutamenti di stato. Infatti a Roma ed in Etruria, Feronia è anche dea del fuoco e della fecondità sia del suolo, che degli animali, che dell’uomo. Quanto fuoriesce dalla terra alla luce del sole, è posto sotto la sua protezione, in primis le acque sorgive, simbolo di quel perenne e spontaneo scorrere della vita di cui la dea è protettrice. Una divinità della vita e della natura, intese nella loro accezione più selvaggia.
Feronia, ci riporta all’immagine della “potnia tòn teròn”, divinità la cui natura non è unicamente preposta alla generazione, ma ad altrettanti variegati significati e funzioni e fa per questo il pari con dee come Diana, Artemide, Fortuna Primigenia, Angerona, Ops, Muta ed Ancaru o figure semi divine come Circe, Stige, Acca Larentia, Anna Perenna ed altre ancora, provenienti dall’ambito pre-indoeuropeo, legate all’idea di matriarcato ed al culto della Dea-madre. In un contesto simile, l’elemento femminile assumeva una decisiva preponderanza anche all’interno dei vari pantheon divini, grazie al proprio ruolo di fecondità e perpetuazione della specie. Divinità come Madre Terra, Demetra, Ecate, Cerere e via dicendo, anche se ridimensionate o addirittura accantonate nel ruolo di “dee otiosae”, stanno a testimoniare quanto sin qui detto. Fecondità, tutela della natura nei suoi aspetti più selvaggi, ma anche passaggio di stato, accostano dee come Feronia alla realtà dello sciamanesimo, pratica questa sulla cui esistenza nel mondo classico, esistono pareri discordi, proprio a partire da autori come Mircea Eliade. La figura dello sciamano possiede la facoltà di muoversi tra la dimensione dei vivi e quella dei morti, di quegli spiriti della vita e della morte con cui a volte deve intraprendere dei serrati combattimenti per addivenire alla guarigione del proprio miste. Lo schiavo può, in tal senso, esser visto ed interpretato come un morto vivente a cui viene fatto dono di una nuova vita, attraverso il passaggio allo stato di libero. Feronia riesce ad attribuire al proprio mostruoso figlio Erilo tre anime e tre corpi, (per piegare le quali, il mitico re Evandro dovrà impegnarsi in una lotta estenuante) ricalcando in questo quella tripartizione costitutiva, alla natura sciamanica tanto cara. A Feronia viene anche attribuito il controllo sugli elementi naturali. A Terracina dove Feronia ricopre il ruolo di madre e nutrice di Juppiter Anxurus, il bosco antistante al complesso templare è costantemente rinverdito dalla Dea. Il saccheggio del tempio del Lucus Feroniae, operato dalle truppe cartaginesi al seguito di Annibale, è ostacolato da piogge e fulmini. Non solo. Feronia è alter ego di quella Fortuna a cui è dedicato il tempio a Praeneste, fondata da Ceculo, concepito nel ventre di una vergine da una favilla di fuoco, elemento sacro anche a Vulcano, il dio-fabbro, ma del quale la stessa Feronia/Fortuna possiede una assoluta padronanza. Quello stesso fuoco che, sotto forma di fallo, feconderà Ocrisia, serva in casa di Tarquinio Prisco, e porterà alla nascita del penultimo re di Roma: Servio Tullio. Dunque il fuoco distruttore, sotto l’auspicio degli dei, figura anche come elemento portatore di fecondità nel caso di natali illustri, come per Ceculo e Servio Tullio ed il suo dominio rientra anche tra i poteri sciamanici, in un impressionante parallelismo con quanto si verifica nelle relazioni tra fabbri e sciamani nei mitologemi dell’Asia centrale. Ceculo nasce con un difetto agli occhi, è semi cieco al pari di Fortuna-Feronia che elargisce indifferentemente agli umani fato positivo e negativo, riportandoci in tal modo alla cecità (molte volte simbolica!) degli sciamani, riguardo alla lettura ed all’assegnazione della sorte. Ma quella di Feronia è anche la figura di una dea i cui poteri sono ai più sconosciuti e manifesti unicamente attraverso i propri paredri o gli animali sacri a lei dedicati. Primo paredro della dea è Marte, dio del primo mese dell’antico anno romuleo. Il Marte romano è un dio principalmente legato al ciclo delle messi; egli è difatti dio dei campi e del raccolto (exercitus) ed in quanto tale dio del cibo, oltrechè divinità guerriera, garante di quel ciclo di vita, morte e rinascita, impetuoso ed irruento come la forza degli elementi a cui sovrintende. Secondo paredro di Feronia è Apollo Sorano, dal santuario di questa divinità sul monte Soratte ed i cui sacerdoti, gli Hirpi Sorani erano i particolari rappresentanti. Vestiti di pelli di lupo, costoro correvano sul fuoco a piedi nudi, per simboleggiare la corsa dietro al sole dispensatore di vita e di calore. Apollo è qui inteso quindi nel suo lato solare, espressione di un ciclo tutto imperniato sulla ciclica ascesa e discesa del Sole verso le tenebre. Di conseguenza tutte le varie confraternite guerriere uomo-lupo/cane, presenti in gran numero nell’antichità italica e romana, sono legate alla solarità. Ritorna quindi con prepotenza il motivo di una ciclicità legata all’uno o all’altro fenomeno della natura, l’alternanza tra luce e tebre o tra le stagioni, per ribadire l’apparentamento tra Feronia/Fortuna a Diana, Ana Hita, Anna Perenna, sino alla cristiana Befana, tutte figure accomunate dalla desinenza “ana/cibo”, di cui la divinità italica si fa garante attraverso legami ed apparentamenti mitologici e linguistici inusitati. Una ciclicità, il cui doppio volto si evince da simboli archetipi come la “labrys” o ascia bipenne o attraverso festività come il Carnevale, legate al capovolgimento delle stagioni.
La vicenda di Feronia dea dai mille volti, ci riporta al tema fondamentale, cioè quello della natura di una religiosità le cui figure tendevano “motu proprio” ad un’intercambiabilità e ad un’interconnessione di ruoli e figure, quanto mai inusitate per la quadratura mentale di un contemporaneo occidentale. L’idea di un politeismo strettamente legato ad una rigida classificazione e suddivisione di ruoli è, in molti casi, fuorviante ed errata, poiché risente dell’impostazione classificatoria tipica di una scienza, molte volte attaccata a quanto mai ammuffiti parametri evoluzionistici. Il politeismo riuscì invece ad essere un sistema di rappresentazione concettuale “elastico”, cioè in grado di garantire e contemperare la molteplicità degli aspetti della realtà nella loro interconnessione ed il richiamo con il sovrannaturale. Qui la sostanza delle cose si manifesta nella propria immediatezza in miti, immagini e rituali, sottolineando la propria misteriosa complessità attraverso continui rimandi tra divinità o tra immagini mitiche a loro volta connesse con l’uomo. Le divinità più antiche sovente lasciavano spazio a quelle più recenti, rimanendo inattive/”otiosae”, senza però perdere la propria specificità divina. E’ il caso di Saturno, Gea, Quirino, solo per citare alcune tra le innumerevoli figure divine accomunate da questo singolare status.
Il sistema politeista tende quindi all’adorazione del divino, attraverso le sue trasfigurazioni o “ierofanie” negli infiniti aspetti di una realtà spesso ambivalente e contraddittoria, arrivando di conseguenza all’adorazione della realtà stessa. Alla base di questo stato di cose, sta l’immediatezza della percezione dell’essenza della realtà e della propria totale osmosi con essa che caratterizzava l’uomo dell’antichità, grazie al continuo dialogo con la dimensione del sovrannaturale, garantito dall’impostazione di pensiero tradizionale.
Tale percezione aumenta con il retrocedere nel tempo, come testimoniato da quelle forme di religiosità chiamate “animiste” e caratterizzate da una spontanea e multiforme presenza di spiriti o “anime”che, coincidenti con i vari aspetti della realtà presi in esame, finiscono con il conferire vita autonoma e divina a tali aspetti. Il mito stesso, con il proprio atemporale districarsi di vicende, ricopre la funzione di ricordare tale immediatezza nei rapporti uomo-sovrannaturale. La vetusta prospettiva evoluzionista che vedeva nelle forme di religiosità tribali e più arcaiche il frutto di involute modalità di pensiero, così come prospettato da Tylor, Frazer e con lo stesso tema freudiano del totemismo, risulta oggi per lo più superata. A partire dall’irrompere della prospettiva “culturalista” di Frobenius per l’antropologia, da una parte, della psicologia analitica junghiana e della filosofia esistenzialista degli Heidegger e degli Jaspers, dall’altra, vi è stato un autentico rivolgimento delle prospettive. La pretesa arcaicità di talune culture potrebbe invece esser rivelatrice di quella immediatezza di relazioni di cui abbiamo poc’anzi parlato, espressa da quel sentimento estatico di oceanica appartenenza ad un tutto. Potremmo addirittura affermare che lo stadio di primigenia animalità della razza umana nei suoi stadi precedenti all’ ominazione, sia invece il momento più completo di quanto sin qui descritto. E qui arriviamo al punto focale dell’intera questione.
Con l’andare del tempo, con lo svilupparsi della coscienza, si va perdendo quella immediatezza di rapporti con il divino e quindi con il senso più recondito della realtà. La cristallizzazione in un rituale, la rappresentazione mitica, prima orale poi scritta, rappresentano un primo, tangibile segnale di questa inarrestabile china. Se gli antichi avevano una maggior possibilità di relazionarsi direttamente con il sovrannaturale, tale prospettiva va completamente perduta con l’arrivo delle religioni rivelate e del monoteismo. Qui la manifestazione del divino è mediata da un uomo, la cui presenza sta lì a ricordare, rammemorare, l’esistenza di un dimensione “altra” attraverso la propria parola e sinanche azione, volta a rievocare ciò che è da secoli divenuto oramai invisibile e, per ciò stesso, opinabile e soggetto quindi alla corrosiva azione della “doxa/opinione”.
Una sola realtà un solo dio, ma anche un solo modello di sviluppo politico prima, economico dopo. E’ l’asfissiante globalizzazione che oggi tutto svilisce ed appiattisce, nel proprio impeto di universale mercificazione di uomini, cose e valori.
Ma la nostra splendida penisola, sebbene vilipesa da alluvioni, mondezza e cementificazioni, è ancora lì, con la sua natura, i suoi santuari, i suoi resti senza tempo, le sue dee, ad illuminarci ancora una volta la strada ed a mostrarci quelle radici, quell’eterno Archetipo da cui poter far ripartire il motore di una Storia, che non ha mai smesso e mai smetterà di stupire.


11 Novembre 2011 12:00:00 - http://rinascita.eu/index.php?action=news&id=11458

lundi, 07 novembre 2011

Lucien Jerphagnon: il parlait à l'oreille des anciens

Lucien Jerphagnon: il parlait à l'oreille des anciens

Le grand historien de l'antiquité européenne laisse des livres à lire!

par Guilhem Kieffer

Ex: http://www.metamag.fr/

Morts quasiment en même temps, que valait un Lucien Jerphagnon à côté d’un Steve Jobs ? Rien à Wall Street. Pas davantage en exclamations, pleurs, soupirs. A quelques jours près, il n’a fait ni la une des télé ou des journaux hormis, heureusement, quelques colonnes dans Le Monde ou Le Point. Mais rien sur iPad ou facebook. On a su à peine qu’il était mort. Il n’était pas une icône-marchande. C’était un prof…


Lucien Jerphagnon

Et, en plus, un prof qui s’intéressait à des mondes disparus, dont les apparatchiks orwelliens traquent les ultimes résidus jusque dans nos salles de cours et de bibliothèques : le monde et la pensée romaine, l’antiquité et ses langues. Qu’il pratiquait fort, comme pas mal de nos parents ou grands-parents. N’avouait-il pas avoir « avalé », dans sa jeunesse, les 30 volumes -en latin- des Confessions de Saint Augustin? 

De sa confrontation avec l’histoire et les maîtres antiques, chrétiens ou non, comme Socrate, Platon, Plotin, mais aussi de son intelligence, Lucien Jerphagnon, qui eut le grand philosophe juif, Vladimir Yankélévitch, comme « maître», avait abouti à un enseignement essentiel et pourtant délaissé aujourd’hui. Il le confiait, dans un long entretien, à La Nouvelle Revue d’Histoire en 2006 . « En regardant les philosophes , on a le sentiment qu’ils sont coupés du monde et de leur temps. Ceux qui étudient les philosophes (ndlr : mais on peut appliquer le même raisonnement à l’histoire) le font comme s’ils vivaient dans un éternel présent.

Messager de Delphes

Or, il n’y a pas d’éternel présent, ni d’homme éternel quoi qu’on en ait dit, qui subsisterait toujours semblable en son fond, des cavernes aux satellites habités . Il y a des couches successives, peuplées de consciences diversement conditionnées, des strates qui ont chacune leur vérité et leurs erreurs, leur idée du possible  et de l’impossible, du concevable et de l’absurde et c’est seulement pour la commodité, pour le confort intellectuel que nous englobons toutes ces consciences disparates sous le même concept d’homme. Le temps bouge continuellement sous les yeux d’êtres qui eux-mêmes se transforment
. »




Mais au-dessus de ce fleuve, en mouvement constant, il y a quelques personnages-ponts. Ponts entre les pensées, entre les hommes, entre les époques . Lucien Jerphagnon était de ceux-là . Avec « La…. Sottise ? Vingt-huit siècles qu’on en parle », publié l’an dernier, quelle démonstration plus sagace et ironique pouvait-il donner au grand public? Aux esprits cultivés, ce maître, titulaire de la chaire de la pensée antique et médiévale à l’université de Caen, fournit d’autres exemples de sa plasticité et de son empathie.



Spécialiste de Saint Augustin (entré avec lui dans La Pléiade), il étonna avec une biographie novatrice sur son antithèse, l’empereur Julien (faussement qualifié d’ »apostat ») qui, des siècles durant, « fera l’objet  d’une incroyable cristallisation. » De cet exercice de nomadisme mental, de cet échange intemporel, de cette hygiène spirituelle, Michel Onfray, qui fut un de ses, chanceux, élèves normands, a livré témoignage dans un hommage reconnaissant (Le Point du 22 septembre).

« Quand il arrivait dans la salle, grand et maigre, la moustache d’un officier de la coloniale toujours impeccablement symétrique il sortait son volume de Budé (…) et commençait un spectacle extraordinaire. Seul, il jouait tous les rôles du théâtre antique : il fulminait, susurrait, ricanait, délirait, le tout avec une érudition époustouflante  (…) S’il parlait d’un bordel, c’était avec la caution de Juvénal, d’une partie de jambes en l’air avec celle de Perse, d’une trait d’esprit avec Tibulle, s’il lançait une saillie contre les grands de ce monde, c’était sous couvert de Tacite ou Suétone (…) » Au terme de son one man show, « on avait beaucoup appris, tout compris et, surtout, tout retenu 

De cet agnostique qui, quelques jours avant sa mort, confiait –«j’essaie de faire remonter vers le divin tout ce qu’il y a de divin en moi»- paraîtra, en février, un texte posthume qu’il venait d’achever: « Connais-toi toi-même »… (et tu connaîtras l’univers et les dieux). Une injonction venue de Delphes ! Destinée à chacun d’entre nous.

samedi, 15 octobre 2011

Tacitus’ Germania

Tacitus’ Germania

By Andrew Hamilton

Ex: http://www.counter-currents.com/

Tacitus’ Germania, a short monograph on German ethnography written c. 98 AD, is of great historical significance. The transmission of the text to the present day, and certain adventures and tensions surrounding it, make for an interesting story.

Roman historian and aristocrat Cornelius Tacitus (c. 55–c. 117 AD) was the author of several works, more than half of which have been lost. What remains of his writings are divided into the so-called “major [long] works,” the Histories [2] and the Annals [2], jointly covering the period 14–96 AD, and the “minor [short] works”: The Dialogue on Orators, Agricola, [3]and [3] Germania [3]. Tacitus, a senator, is believed to have held the offices of quaestor in 79, praetor in 88, consul in 97, and proconsul or governor of the Roman provinces in “Asia” (western Turkey), from 112–13.

The Germania is a short work, not really a “book.” My copy, “Germany and Its Tribes,” is a mere 23 pages long—albeit in moderately small wartime print on thin paper containing no notes, annotations, maps, illustrations, or other editorial aids. It was translated from the Latin by Alfred Church and William Brodribb in 1876 and published in The Complete Work of Tacitus by Random House’s Modern Library in 1942.

The Agricola, about Roman Britain, is roughly the same length. Agricola, the general primarily responsible for the Roman conquest of Britain and governor of Britannia from 77–85 AD, was Tacitus’ father-in-law.

The Germania has been the most influential source for the early Germanic peoples since the Renaissance. Its reliable account of their ethnography, culture, institutions, and geography is the most thorough that has survived from ancient times, and to this day remains the preeminent classical text on the subject. The book signifies the emergence of the northern Europeans from the obscurity of archaeology, philology, and prehistory into the light of history half a millennium after the emergence of the southern Europeans in Homer and Herodotus.

Though Tacitus at times writes critically of the Germans, he also stresses their simplicity, bravery, honor, fidelity, and other virtues in contrast to corrupt Roman imperial society, fallen from the vigor of the Republic. (It has been said that no one in Tacitus is good except Agricola and the Germans.)

Tacitus’ book is based upon contemporaneous oral and written accounts. During the period knowledge of northern Europe increased rapidly. Roman commanders produced unpublished memoirs of their campaigns along the lines of Caesar’s Commentaries, which circulated in Roman literary circles. Diplomatic exchanges between Rome and Germanic tribes brought German leaders to Rome and Roman emissaries to barbarian courts. And Roman traders expanded traffic with the barbarians, generating, perhaps, more knowledge than the military men.

According to Jewish classicist Moses Hadas, Tacitus “never consciously sacrifices historical truth. He consulted good sources, memoirs, biographies, and official records, and he frequently implies that he had more than one source before him. He requested information of those in a position to know” and “exercises critical judgment.”

Other Ancient Accounts of the Germans

Prior to Tacitus’ narrative, a Syrian-born Hellenistic Greek polymath of the first century BC, Poseidonius, may have been the first to distinguish clearly between the Germans and the Celts, but only fragments of his writings survive.

Julius Caesar did not penetrate very far east of the Rhine, so his knowledge of the Germans, expressed in De Bello Gallico (On the Gallic War, c. 50 BC), was limited.

The Roman Pliny the Elder’s Bella Germaniae (German Wars, c. 60s–70s AD) probably contained the fullest account of the people up to Tacitus’ time, but it has been lost.

Pliny, the foremost authority on science in ancient Europe, had served in the army in Germany. When Mount Vesuvius destroyed Herculaneum and Pompeii, he was stationed near present-day Naples, in command of the western Roman fleet. Eager to study the volcano’s destructive effects firsthand, he sailed across the bay, where he was suffocated by vapors caused by the eruption.

Following the Germania, the most important ancient work discussing northern Europe was Ptolemy’s Geography, written in the 2nd century AD. Ptolemy is the Alexandrian astronomer best-known for positing the Ptolemaic System. The Geography named 69 tribes and 95 places, many mentioned by no other source, as well as major rivers and other natural features.

From late antiquity, no extensive study of the Germanic peoples has survived, if one was ever written, and no single writer treated the migrations in a coherent way.

Loss and Rediscovery

At some point during the collapse of classical civilization and the migrations of late antiquity the text of the Germania was lost for more than a thousand years. It resurfaced only briefly, in Fulda, Germany in the 860s, where it and the other short works were probably copied. A monk at Fulda quoted from it verbatim at the time. Subsequently it was lost again.

In 1425 rumors reached Italy that manuscripts of Tacitus survived in the library of Hersfeld Abbey near Fulda. One of these contained the shorter works. In 1451 or 1455 (sources differ) an emissary of Pope Nicholas V obtained the manuscript containing the lesser works and brought it to Rome. It is known as the Codex Hersfeldensis.

In Rome, Enea Silvio Piccolomini, later Pope Pius II, examined and analyzed the Germania, sparking interest in the work among German humanists, including Conrad Celtes, Johannes Aventinus, and Ulrich von Hutten.

Its first publication in central Europe occurred at Nuremberg in 1473–74; the first commentary on the text was written by Renaissance humanist Beatus Rhenanus in 1519.

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The first page of Germania, the Codex Aesinas

The Codex Hersfeldensis was then lost again for half a millennium. (This time, of course, the content survived in published form.) Then, in 1902, a portion of the Codex Hersfeldensis was rediscovered by priest-philologist Cesare Annibaldi in the possession of Italian Count Aurelio Balleani of Iesi (Italian: Jesi), a town located in the Marches of central Italy. The manuscript had been in the family’s possession since 1457. This single text, the oldest extant version, became known as the Codex Aesinas. (I.e., the Aesinas is believed to consist of portions of the lost manuscript from Hersfeld.

One scholar has summarized the tremendous impact the text’s rediscovery in 1455 has had on European history:

The rediscovery of the Germania in the late fifteenth century was a decisive event in the study of the ancient Germanic peoples. Renaissance scholarship endowed Roman literary texts with outstanding authority, as well as making them more widely available. At the same time, a rise in German national feeling led to heightened interest in ancient texts which illuminated the Germanic past. . . . The Germania . . . was used to cement a link between the Germans of Tacitus and the Germans of the early modern period. From about 1500 onward the Germania was rarely far from serious discussion of German national identity, German history and even German religion. Fresh impetus was given to it in the nineteenth century and, of course, the racial purity, valour and integrity of the Germans as portrayed by Tacitus had immense appeal to the National Socialist hierarchy in the 1920s and 1930s. (Malcolm Todd, The Early Germans, 2d ed., Oxford: Blackwell, 2004, p. 7)

Among others, the Germania influenced Frederick the Great, Johann Fichte, Johann Gottfried von Herder [5], and Jakob Grimm.

Key to the rediscovery, preservation, transmission, and social and racial influence of the Germania over the past 500 years have been Renaissance humanism, modern (pre-21st century) scholarship, the invention of printing, liberalism, nationalism, and racial science.

A Dangerous Book

Since the Renaissance, the Germania has provided the most significant historical evidence of the early Germanic peoples.

The inevitable identification of the ancient Germans with their descendants commenced soon after the book’s discovery. Historians, philologists, and archaeologists all added pieces to the mosaic, so that by the time unification occurred in 1871 the early history of the Germans was firmly grounded.

The Germania influenced at least one 20th century leader decisively. Young Heinrich Himmler in September 1924 read Tacitus during a train ride and was captivated. At the time he was personal assistant to Gregor Strasser, leader of the National Socialist Freedom Movement (Nationalsozialistische Freiheitsbewegung).

In contemporaneous notes, Himmler wrote that Tacitus captured “the glorious image of the loftiness, purity, and nobleness of our ancestors,” adding, “Thus shall we be again, or at least some among us.”

In 1936, the year of the Berlin Olympics, Hitler personally requested of Mussolini that possession of the Codex Aesinas be transferred to Germany. Mussolini agreed, but changed his mind when the proposition turned out to be unpopular among his people.

A facsimile copy was made for the Germans and Rudolph Till, chairman of the Department of Classical Philology and Historical Studies at the University of Munich, and a member of the Ahnenerbe (a racial think tank co-founded by Heinrich Himmler in 1935), studied the manuscript in Rome in the months prior to the war. The Ahnenerbe published Till’s findings as Palaeographical Studies of Tacitus’s Agricola and Germania Along with a Photocopy of the Codex Aesinas in 1943.

German ideologist Alfred Rosenberg [6] and SS chief Heinrich Himmler both retained intense interest in the Codex. Mussolini’s government fell in 1943. In July 1944 Himmler dispatched an SS commando team to rescue the manuscript. The unit searched three Balleani family residences in Italy without success.

The Codex was in fact stored in a wooden trunk bound with tin in the kitchen cellar of one of the residences, the Palazzo on the Piazza in Jesi. (There is a 1998 online newspaper account in German [7] about this affair that relies upon Jewish writer Simon Schama’s 1996 Landscape and Memory for its authority.)

[8]

Palazzo Balleani in Jesi

The upshot was that possession of the manuscript remained in the hands of the Baldeschi-Balleani [9] family. After the war the family stored the Codex Aesinas in a safe deposit box in the basement of the Banco di Sicilia in Florence, Italy. In November 1966, the River Arno experienced its worst flooding [10] since the 1550s, causing damage to the Codex. Monks at a monastery near Rome skilled in preserving manuscripts succeeded in saving it, though permanent water damage could not be eliminated.

The Codex was sold by the family to the Biblioteca Nazionale in Rome in 1994, where it is currently cataloged as the Codex Vittorio Emanuele 1631.

Suppress That Classic!

Since WWII, as ideological imperatives took precedence over dispassionate scholarship, the Germania‘s capacity to instill self-awareness and collective identity has deeply disturbed proponents of anti-white policies and ideologies. The historical record is problematic, too, in not depicting the Germans as irredeemably evil, possibly scheming, say, to vaporize the extensive Jewish populations of Rome and Persia in clay kilns.

One feint such ideologues employ is to insinuate that ancient Germans and modern northern Europeans possess no biological or historical kinship. Though nonsensical, it is as easy to argue as is the assertion that biological race does not exist, or dozens of other counter-factual dogmas.

But many would no doubt prefer to ban the book Communist-style, removing all copies from circulation and restricting access to unpulped copies to a handful of approved “scholars” on a carefully monitored basis.

As long ago as 1954 Jewish historian Arnaldo Momigliano declared before “an important international classical conference” that the Germania was one of the most dangerous books ever written. (In 1938 Momigliano lost his job as professor of Roman history at the University of Turin after passage of the Fascist racial law. He moved to England, where he taught for the rest of his life.)

Today, Harvard University’s Christopher Krebs, author of A Most Dangerous Book: Tacitus’s Germania From the Roman Empire to the Third Reich (2011), trumpets Momigliano’s view [11] of the ancient text’s “insidious” nature to the applause of academic peers, literary critics, and journalists.

Krebs’ insincere declaration—gambit, really—that “Tacitus did not write a most dangerous book, his readers made it so,” doesn’t fool anyone. In societies committed to the proposition that speech and ideas constitute “hate,” there is unanimous, or at least undissenting, agreement on how to treat “dangerous” books and ideas.

In an interview, Krebs says that he is half German and half Swedish. But “Krebs” can be a Jewish name—e.g., biochemist Hans Krebs, formulator of the Krebs cycle. Scanning random passages from the book, it is hard to think that the author is not Jewish or part Jewish. If white, he has mastered their psychology to great profit.

Adam Kirsch, a Jewish book reviewer for Slate, the Washington Post-owned online magazine, quotes Krebs approvingly: “‘Ideas are viruses. They depend on minds as their hosts . . . The Germania virus . . . after 350 years of incubation . . . progressed to a systemic infection culminating in the major crisis of the twentieth century.’” (Yes, he means the “Holocaust.”) The title of Kirsch’s article is “Ideas Are Viruses [12].”

This is a characteristically Jewish, and totalitarian, way of thinking.

[13]

Adam Kirsch

Kirsch, a child of privilege, is the son of author, attorney, and newspaper columnist Jonathan Kirsch. A 1997 graduate of Harvard, Adam Kirsch writes regularly for Slate, The New Yorker, The Times Literary Supplement, and other magazines.

Wishing that the Germania had been lost during the Middle Ages, Kirsch concludes, “If the last surviving manuscript had been eaten by rats in a monk’s library a thousand years ago, the world might have been better off.”

Ah, liberal enlightenment! The world can never get enough of it.

 


Article printed from Counter-Currents Publishing: http://www.counter-currents.com

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mercredi, 13 juillet 2011

La religions des Seigneurs

La religion des Seigneurs

 

par Willy Fréson

 

Éric Stemmelen, La religion des seigneurs – Histoire de l’essor du christianisme entre le Ier et le VIe siècle, éd. Michalon, Paris, 2010.  € 22.

 

1100258-gf.jpgEn affirmant à la fois l’unicité et l’intelligibilité du cosmos, puis en l’investiguant par la libre réflexion appuyée sur l’observation et l’expérimentation, les Grecs de l’antiquité avaient fait accomplir à la pensée un véritable saut quantique. Sur ce plan, aucune civilisation ne fut jamais comparable – la nôtre, immergée dans son ébriété marchande et technicienne, n’étant que l’héri- tière bâtarde et improbable du « miracle grec ». Cette performance unique fut au fondement de la culture dite « gréco-romaine », dont le cadre politique fut, durant des siècles, l’œuvre tenace d’un autre peuple de génie, l’Empire romain que Nietzsche considérait comme « la forme d’organisation la plus grandiose jamais atteinte jusque-là, et en comparaison de quoi tout ce qui précède, tout ce qui suit, n’est qu’ébauche, amateurisme, dilettantisme » (L’Antéchrist, § 58).

 

L’ouvrage d’Éric Stemmelen dont il est ici question aborde un épisode absolument crucial de notre histoire puisqu’il ne s’agit de rien de moins que de comprendre comment une secte juive dissidente a pu en arriver à conditionner toute la destinée future de l’Europe et du monde en s’emparant du pouvoir dans l’Empire romain et en détruisant de l’intérieur une civilisation millénaire. Car, proclamait déjà le philosophe au marteau, « le christianisme a été le vampire de l’imperium Romanum, il a défait du jour au lendemain ce que les Romains avaient fait de prodigieux, défricher le sol où édifier une grande civilisation qui avait le temps pour elle » (ibidem). L’auteur constate que le phénomène est traditionnellement étudié dans sa dimension idéologique et, donc, à partir des témoignages chrétiens. Il choisit, quant à lui, de privilégier une démarche différente : elle consiste à délaisser le roman fantastique tramé par ces sources « internes » pour envisager résolument le processus du dehors, en le replaçant « dans les évolutions politiques, économiques, sociales du monde romain » (p. 10).

 

Stemmelen commence par faire un sort au mythe de l’irrésistible ascension du christianisme, censé culminer avec la conversion de l’usurpateur Constantin (306-337). Et en effet, comme ce sont toujours les vainqueurs qui écrivent l’histoire, on ne s’étonnera pas que, jusqu’à nos jours, l’historiographie traditionnelle soit imprégnée d’une vision plutôt conforme aux vœux de l’Église : le surnom de « Grand » conféré à Constantin est, en ce sens, révélateur. Depuis le triomphe de cette dernière, le christianisation est en effet présentée comme un processus irrésistible, nécessaire et bénéfique, s’inscrivant dans le « sens providentiel de l’histoire » et venant parachever le cycle civilisateur du progrès humain. Le récit se résume à la geste héroïque et vertueuse d’une communauté militante vouée au bien-être et au salut de l’humanité souffrante, à l’éloge des qualités intellectuelles et éminemment morales du message véhiculé par les évangiles (τὸεὐαγγέλιον : la « bonne » nouvelle) et, last but not least, à l’évocation des sanglantes persécutions prétendument orchestrées par un pouvoir romain buté dans son pathétique attachement aux traditions « païennes ». Ainsi, en 1939, l’historien et académicien Jérôme Carcopino, parlant de la chrétienté, écrit sans rire : « Évidemment sa croissance souterraine a progressé avec une étonnante rapidité ; … La religion des Juifs avait exercé son attrait sur nombre de Romains séduits par la grandeur de son monothéisme et la beauté du Décalogue. Celle des Chrétiens qui rayonnait des mêmes lumières, mais qui, de plus, divulguait un splendide message de rédemption et de fraternité, ne tarda pas à y substituer son propre prosélytisme » (La vie quotidienne à Rome à l’apogée de l’Empire, p. 163). Dans cette vision, le monde romain était déjà largement et spontanément converti dès le IIIe siècle. Le ralliement de Constantin au parti chrétien et sa conversion apparaissent dès lors comme l’achèvement d’un processus et non comme un « basculement ». C’est ce qu’écrit, par exemple, le cardinal Daniélou dans sa Nouvelle histoire de l’Église (1963) : « Au début du IVe siècle, les forces vives de l’empire étaient en grande partie chrétiennes. … En dégageant l’empire de ses liens avec le paganisme, Constantin ne sera pas un révolutionnaire. Il ne fera que reconnaître en droit une situation déjà réalisée dans les faits ».

 

Or, les résultats les plus récents de la recherche infirment cette sentence, et c’est sur eux que s’appuie la thèse de Stemmelen. Il faut surtout signaler les travaux de Robin Lane Fox et d’Alan Cameron aux États-Unis, de même que ceux de Pierre Chuvin et de Claude Lepelley en France. Ils apportent un sérieux bémol à cette vulgate de l’histoire chrétienne. En bonne méthode critique, ces auteurs sont retournés aux sources pour constater que la dite vulgate n’a guère d’autres fondements que les écrits, partisans et polémiques, des auteurs chrétiens eux-mêmes. En fait, de nombreux témoignages montrent que jusqu’en plein IVe siècle, les cultes traditionnels – « païens » – gardent toute leur vigueur ; à l’inverse, jusque vers le milieu du IIIe siècle, le corpus des textes non chrétiens ne comporte que très peu de témoignages de l’existence du christianisme, sans parler de l’authenticité douteuse de certains d’entre eux. Il en va de même des données épigraphiques, papyrologiques et archéologiques dont l’importance ne devient vraiment significative qu’à l’approche du IVe siècle. Si ce constat pose un rude problème méthodologique du fait que les affirmations de l’apologétique chrétienne – déjà suspectes en soi – ne peuvent guère être contrôlées par des recoupements externes, il laisse en tout cas soupçonner que la secte chrétienne a plus ou moins végété durant deux bons siècles, sinon dans le mépris, du moins dans la quasi indifférence générale, perdue qu’elle était dans le foisonnement des religions et des doctrines philosophiques d’un monde polythéiste et donc « pluraliste » par nature. Ce soupçon devient conviction lorsque l’on considère la faiblesse numérique des chrétiens avant et longtemps encore après leur prise du pouvoir : selon des estimations plausibles – car fondées sur des documents peu nombreux, certes, mais néanmoins révélateurs –, à la fin du IIe siècle, ils ne représentaient qu’à peine 2 % des habitants de l’Empire, et, au début du IVe, pas plus de 4 ou 5 %. Encore faut-il tenir compte des disparités régionales inhérentes à l’immensité de l’Empire : dans les provinces européennes, hormis Rome et quelques villes importantes, on tombe à 1 ou 2 %. Quant à l’Égypte, riche de sa documentation papyrologique et tenue pour l’un des premiers gros bastions du christianisme, elle ne devait compter tout au plus que 20 % de convertis à la même époque. On est loin de l’irrésistible et rapide conversion des masses décrite par les historiens conformes ! Et pour ce qui est des trop fameuses « persécutions », soit dit en passant, elles relèvent, pour l’essentiel, de fictions propagandistes chrétiennes : jusqu’au milieu du IIIe siècle et surtout jusqu’aux mesures bien trop tardives de Dioclétien (284-305), le pouvoir romain ne se préoccupa guère d’une secte si peu importante – de minimis non curat praetor –, et les actions antichrétiennes se résumèrent à des faits anecdotiques locaux, plutôt rares et aux effets limités.

 

Ce constat entraîne une conséquence capitale : le ralliement de Constantin ne peut plus être considéré comme l’aboutissement inévitable d’une christianisation avancée de l’Empire, mais bien comme un coup de force révolutionnaire qui imposa, en peu de temps, la dictature du parti de « Dieu ». Ceci apparaît d’autant plus clairement que, par ailleurs, la « question constantinienne » semble désormais tranchée. Elle s’était longtemps posée aux historiens qui s’interrogeaient sur la date de la conversion de Constantin : était-ce en 312, après sa fameuse vision et sa victoire décisive sur Maxence au pont Milvius, ou plus tard, en 326, après les meurtres de son propre fils Crispus et de sa seconde épouse Fausta, ou encore en 337, sur son lit de mort, lorsqu’il reçut enfin le baptême (une astuce d’époque, pour se faire pardonner jusqu’au dernier de ses innombrables péchés) ? On a maintenant de bonnes raisons pour fixer l’événement en 312 et pour rechercher sa cause du côté des nécessités politiques bien plus que des convictions religieuses.

 

La grande crise du IIIe siècle, avec ses usurpations, ses sécessions et ses guerres civiles, avait en effet gravement ébranlé l’image impériale. Pour la restaurer, les « empereurs soldats » avaient recouru à un stratagème idéologique qui consistait à se poser comme les représentants sur terre d’un dieu suprême. Aurélien s’était ainsi voué à Sol Invictus, tout comme les tétrarques Dioclétien et Maximien respectivement à Jupiter et à Hercule, ce qui leur conférait une légitimité d’essence divine, censée disqualifier les usurpateurs. Or, précisément, Constantin était un usurpateur qui, en 306, n’avait pas reculé devant un coup d’État et devant une guerre civile pour s’assurer de la succession de son père, Constance Chlore, au détriment des règles constitutionnelles de la Tétrarchie nouvellement instaurée par Dioclétien. Confrontés à des adversaires qui s’appuyaient sur les cultes encore vivaces des divinités traditionnelles de l’Empire, il s’était d’abord tourné vers les figures tutélaires d’Apollon et de Sol Invictus avant de sauter un pas décisif en adoptant, pour mobiliser ses troupes, une divinité d’un tout autre genre et en misant sur l’appui d’un mouvement religieux très minoritaire, certes, mais disposant d’atouts idéologiques indiscutables, et solidement organisé par des activistes passés maîtres dans l’art de l’agit-prop. Depuis longtemps, en effet, malgré son penchant affiché pour les misérables, l’ecclésia chrétienne avait réussi à gagner de l’influence auprès de certains éléments des couches aisées voire fortunées de la société, sans doute séduits par l’aplomb d’une doctrine qui non seulement prétendait donner réponse catégorique à toutes les interrogations existentielles, mais encore synthétisait des idées familières véhiculées autant par les gnoses et mystères orientaux que par une certaine philosophie grecque (dualisme, monothéisme, universalisme, eschatologie, sotériologie). Ce sont ces milieux qui avaient fourni le financement et les cadres éduqués indispensables à la propagande et à la crédibilité du mouvement au plus haut niveau. Ainsi, l’Africain Tertullien (entre 160 et 225) tout comme Minucius Felix, son quasi-contemporain, étaient des avocats des plus aisés, l’un à Carthage, l’autre à Rome, et nombreux étaient les évêques issus de familles très riches, tel Cyprien à Carthage (200-258).

 

C’est ainsi que l’on peut établir une conjonction entre les besoins de la politique et l’offre idéologique de l’époque : pour assurer son coup de force politique, Constantin fit le pari d’une nouvelle légitimité reposant sur une formule simple, démagogique et à l’efficacité prometteuse. L’analyse ne peut toutefois s’arrêter en si bon chemin car, ce faisant, l’usurpateur prenait le risque de se mettre à dos l’écrasante majorité des habitants de l’Empire. Comment, dès lors, expliquer son calcul ? Stemmelen, comme il l’a annoncé dans son prologue, procède alors à une approche « externe » des faits et vise à démontrer que le succès durable de Constantin tint au soutien décisif de la classe dominante des grands propriétaires, elle-même déjà largement gagnée par le christianisme.

 

Si l’on admet les aspects les moins contestables de la pensée de Marx, il faut ici rappeler que toute société se construit autour de trois contraintes qui sont l’exploitation économique, la domination politique et l’hégémonie idéologique. Selon le sociologue Robert Fossaert (La société. I : Une théorie générale, 1977), « l’instance économique tend à représenter l’ensemble des pratiques et des structures sociales relatives à la production de la vie matérielle de la société. Le concept central à partir duquel elle s’organise est celui de mode de production. L’instance politique tend à représenter l’ensemble des pratiques et des structures sociales relatives à l’organisation de la vie sociale. Le concept central à partir duquel et autour duquel elle s’organise est celui de l’État ». Quant à l’instance idéologique, elle se définit de la façon la plus large « comme l’analyse de l’ensemble des pratiques par lesquelles et des structures dans lesquelles les hommes-en-société se représentent le monde où ils vivent ». Si l’on transpose ces considérations au cas historique qui nous préoccupe, on voit que sa victoire de 312 assura à Constantin la mainmise sur l’appareil d’État romain (il liquidera Licinius, son corégent et beau-frère, en 325), laquelle conditionna la mise en place de l’hégémonie idéologique de l’Église et du parti chrétiens. Or, le caractère durable et, en fait, définitif de cette révolution induit nécessairement que des éléments dominants de la société étaient partie prenante dans l’opération car, comme le rappelle Stemmelen, « aucun régime politique ne peut gouverner contre la classe qui détient le pouvoir économique » (p. 110). Ce point constitue le noyau de la thèse développée par l’auteur, et il le résume comme suit (pp. 271-72) :

 

« Au IIe siècle, l’économie romaine est entrée dans un nouveau mode de production, fondé sur la propriété latifundiaire et sur le colonat, qui s’est substitué à l’esclavage traditionnel, en particulier en Orient et en Afrique. Il consiste à faire exploiter de très grands domaines agricoles par des paysans, dénommés « colons » [coloni], qui, bien que « libres » et non pas esclaves, doivent demeurer attachés à la terre qu’ils travaillent, pour le compte et au bénéfice d’un richissime propriétaire. Pour que ce système fonctionne, il est nécessaire que ces paysans se soumettent à l’autorité des grands propriétaires fonciers, qu’ils acceptent de travailler pour le compte d’autrui alors que leur statut d’hommes libres ne les y oblige pas, contrairement aux esclaves, et enfin qu’ils fondent une famille et qu’ils assurent une descendance afin que perdure l’exploitation. Or, dans un monde aux mœurs plutôt relâchées, où règne une certaine oisiveté (le travail et la soumission étant réservés aux esclaves), rien n’incite des hommes libres à se plier à de telles contraintes. La religion chrétienne va fournir aux propriétaires l’instrument idéologique adéquat car elle est la seule à promouvoir avec force les valeurs d’autorité, de travail et de famille. Sa vision très particulière de la sexualité, réduite à sa fonction reproductrice, s’oppose radicalement aux mœurs antiques. Les nouveaux seigneurs fonciers vont donc favoriser l’essor de cette secte très minoritaire et utiliser ses cadres, les évêques, d’abord pour asseoir leur tutelle sur les coloni, ensuite pour s’emparer du pouvoir politique, ceci aux dépens de l’ancienne classe dominante esclavagiste représentée par l’ordre sénatorial. La création d’un empire chrétien s’ensuivra, avec la mise en place, au IVe siècle, d’un régime dictatorial, entièrement voué à la puissance et à l’enrichissement des seigneurs, et qui procèdera à une christianisation forcée. »

 

Dans son principe, cette thèse est séduisante en ceci qu’elle tente d’expliquer le triomphe de l’Église chrétienne non plus par de simples considérations idéologiques (les « vertus » intrinsèques du discours chrétien) mais, plus largement et plus fondamentalement, par des arguments d’ordre politique, économique et social. À la suite des profondes mutations subies par l’Empire romain durant le IIIe siècle,elle décrit, en fait, l’émergence d’un ordre nouveau totalitaire où, au travers d’une stricte hiérarchie de « seigneurs » (domini ; plus tard, en latin ecclésiastique, seniores), se conjuguent de manière saisissante les rets de l’exploitation économique, de la domination politique et de l’hégémonie idéologique. De haut en bas, on a ainsi le Dominus céleste – créateur et principe de l’univers –, puis le dominus terrestre – l’empereur, jadis simple princeps et désormais maître du monde par la grâce divine –, et enfin, de multiples domini locaux – grands propriétaires, soutiens et bénéficiaires ultimes du système tout autant qu’incarnation de celui-ci auprès du commun des mortels.

 

La démonstration, pourtant, ne laisse pas de susciter quelques objections. On ne peut, en effet, que s’étonner de voir l’auteur reprendre une affirmation du juriste italien Aldo Schiavone disant que « la crise de l’esclavage romain s’accompagne, à partir des débuts du troisième siècle après J.-C., de l’effondrement de tout le système économique de l’empire » (p. 30). Ce point de vue catastrophiste, fondé surtout sur les textes et partagé naguère par nombre de spécialistes, est aujourd’hui dépassé. Les recherches récentes des archéologues dessinent au contraire une image nettement plus favorable de la situation économique de l’Empire durant ce siècle troublé ; elles présentent, en outre, un tableau très différencié suivant les périodes et les régions. Par exemple, on sait maintenant que, si l’Afrique a connu alors un véritable « boom » économique, ce ne fut pas au détriment d’autres provinces et encore moins à celui de l’Italie, prétendument en complète régression : simplement, les acteurs économiques, les réseaux d’échanges et les centres de gravité ont évolué avec le temps. En particulier, les conséquences du déclin de la main d’œuvre servile ont été exagérées. Elle a surtout touché l’Italie, où les esclaves avaient été très nombreux à la suite des conquêtes de la République ; mais le processus s’était amorcé dès le Ier siècle de notre ère et, dans le monde rural, ses effets avaient été absorbés depuis, grâce aux restructurations rendues possibles par la persistance d’une nombreuse paysannerie libre, en Italie comme dans les provinces. Ceci dit, le nombre des esclaves restait tout de même non négligeable, ce qui, d’ailleurs, ne heurtait en rien les idéologues chrétiens. Dans ces conditions, on ne peut affirmer, sans plus, que « le colonat s’est substitué à l’esclavage traditionnel » et que « les nouveaux seigneurs fonciers » se sont établis « aux dépens de l’ancienne classe dominante esclavagiste représentée par l’ordre sénatorial ». La réalité fut plus complexe, sans aucun doute, mais, vu le caractère limité de nos sources, elle se laisse difficilement appréhender.

 

Le problème du colonat illustre bien cet état de choses. Le colon était un paysan libre qui, contre redevance, recevait le droit de cultiver une parcelle de terre agricole. Ce genre de bail à métayage était courant sur les grands domaines (praedia) privés ou publics du monde romain. Sous l’Empire tardif, les textes législatifs révèlent une apparente dégradation de la condition des colons. Ces derniers, ainsi que leurs descendants, sont désormais impérativement liés (adscripti) à leur « lieu d’origine » (origo), c’est-à-dire à la terre qu’ils cultivent. Ceci est apparu comme une préfiguration du servage médiéval, et, longtemps, on a cru y voir une mesure destinée à remédier à la défaillance de l’économie esclavagiste. En réalité, l’obligation de rester sur sa terre d’origine est une conséquence de la grande réforme fiscale promulguée par Dioclétien en 287. À cette occasion fut introduit le système de l’impôt par répartition qui consistait à attribuer à chaque unité fiscale, du haut en bas de la hiérarchie administrative, un certain nombre de parts (capita) de la charge globale. Les grands domaines fonciers comptèrent de la sorte parmi les unités de base, et, afin de soulager les agents du fisc, leurs propriétaires, les domini, eurent chacun pour tâche de répartir et de percevoir l’impôt (capitatio) dans leur domaine propre – ce qui n’était sans doute que la systématisation d’un pragmatisme bien antérieur. Aussi est-ce pour assurer la pérennité du rendement fiscal que les colons furent légalement adscrits à la terre. Ceux-ci restaient donc libres car l’obligation à laquelle ils étaient assujettis était de droit public et non privé : autrement dit, la loi visait à garantir l’intérêt de l’État – i. e. la rentrée de l’impôt – et non celui des propriétaires fonciers qui, de leur côté, bien sûr, cherchaient à maintenir leurs baux. Cependant, si la législation visait, au départ, à protéger les colons, elle ouvrait indéniablement la portes aux pires abus en déléguant aux domini non seulement la collecte de la capitation mais aussi le contrôle de l’obligation faite aux colons de rester en place. À la longue, évidemment, au gré des défaillances de l’État, le pouvoir de ces « seigneurs » finit par rompre l’équilibre et par détourner à son profit ce fragile cadre juridique.

 

Dans un monde où l’agriculture représentait encore la part majeure de l’économie, les grands propriétaires fonciers étaient, sans conteste, les principaux détenteurs des moyens de production, d’autant qu’ils étaient aussi impliqués dans les échanges commerciaux. Sous l’Empire tardif, ils formèrent une classe particulièrement opulente et puissante, en Orient et, plus encore, en Occident. On ne saurait dire, toutefois, qu’elle s’est constituée, par la grâce du colonat, en opposition à l’ancien ordre sénatorial « esclavagiste ». Elle est, en fait, le résultat des évolutions politiques, sociales et économiques des trois premiers siècles de l’Empire qui ont vu l’ancienne aristocratie italienne s’ouvrir peu à peu aux élites provinciales puis aux parvenus de toute sorte, alors même que l’économie agraire se restructurait diversement suivant les régions, en privilégiant d’autres modes de production que l’esclavagisme. Nonobstant, ce correctif mis à part, il est tout à fait plausible qu’une partie au moins de la classe des « seigneurs » ait joué un rôle actif et intéressé dans la promotion d’un christianisme promouvant si opportunément les valeurs « d’au- torité, de travail et de famille » ; de nombreux signes montrent, en tout cas, que cette classe s’est largement ralliée au camp de Constantin puis de ses fils à partir de la victoire décisive du premier en 312, réalisant ainsi le « basculement » évoqué par Stemmelen.

 

Reste, maintenant, un point essentiel. De ce qui a été dit jusqu’ici, on peut conclure que l’ébranlement de l’Empire, au IIIe siècle, n’est pas, dans son essence, assimilable à une crise  économique majeure – et encore moins à un « effondrement » –, comme le conçoit Stemmelen à la suite de toute une tradition historiographique marquée du plus typique des réductionnismes « modernes », à savoir l’économisme (« réduction à l’économie des finalités sociales et des buts du politique »). S’il en avait été ainsi, jamais l’Empire n’eût pu y survivre comme il le fit. La crise, bien réelle en tout état de cause, fut plutôt la conséquence d’un collapsus politique induit par une impasse géopolitique. Les effets de cette dernière, un temps maîtrisés, finiront par mener, au Ve siècle, à l’effondrement militaire et politique de l’Empire romain en Occident.

 

Depuis ses origines, en effet, le système impérial souffrait d’une contradiction majeure car, pour le faire accepter au terme de sanglantes guerres civiles qui avaient abattu le pouvoir du Sénat, Auguste, le premier empereur, avait dissimulé les réalités de la nouvelle monarchie militaire en perpétuant le décorum des institutions républicaines. On était donc toujours officiellement en République et le Sénat gardait, au moins nominalement, un certain nombre de prérogatives, dont la désignation de l’empereur, présenté comme le princeps, « le premier des sénateurs » (d’où le nom de « principat » donné au régime). Or, malgré l’opposition larvée de l’ordre sénatorial, les réalités ultimes du pouvoir se trouvaient maintenant de facto aux mains de l’armée (perpétuant l’idée du peuple romain en armes), sans qu’aucun principe constitutionnel ne vînt clairement définir les modalités de la succession impériale.

 

Par ailleurs, la République, régime oligarchique d’assemblée – par nature méfiant à l’égard des grands commandements affectés à de grandes entreprises –, n’avait jamais élaboré de concept stratégique autre qu’empirique et s’en tint toujours à quelques principes, dont le plus constant consista à ne dépasser sous aucun prétexte l’écosystème du bassin méditerranéen, berceau de la civilisation et base du système international dans lequel se déployait la politique romaine. Le Sénat crut possible, en effet, de se réserver « la part utile » du monde, quitte à abandonner le reste à son sort, faisant sur ce point essentiel bon marché des pesanteurs de la géopolitique et transposant à l’échelle de l’œkoumène un comportement de propriétaire terrien typique de l’aristocratie romaine. Ce fut le génie novateur de César qui, au temps de la révolution romaine, amena la rupture avec cette posture restrictive en concevant une authentique « grande stratégie » accordée à la vision d’un empire universel. Le nouveau concept tirait les conséquences de la situation très particulière et aussi très préoccupante de l’empire républicain, lequel, bordant presque tout le pourtour de la Méditerranée, se présentait comme une île inversée, avec ses côtes tournées vers l’intérieur et ses territoires déployés en arc de cercle, ouverts aux profondeurs continentales. La vulnérabilité de ces frontières interminables s’étant brutalement révélée lors de l’invasion cimbrique qui avait frappé l’Italie et les provinces depuis la péninsule balkanique jusqu’à l’Espagne (113-101), l’objectif de César fut alors d’annuler ces frontières en portant les limites de l’empire jusqu’aux rivages de l’océan. La fameuse « guerre des Gaules » (58-51) fut l’amorce de cette « grande stratégie » qui, d’emblée, s’orienta vers l’Europe, hinterland de l’Italie. La mort du « dictateur » empêcha la réalisation d’un plan qu’il prévoyait de poursuivre depuis la Caspienne jusqu’à l’Atlantique. Le projet fut cependant repris par son petit neveu, Auguste, le premier empereur, qui, après avoir plus clairement encore donné la priorité stratégique à l’Europe plutôt qu’à l’Orient, poussa jusqu’à la Baltique, la Bohême et le bassin des Carpates. L’échec final de ce projet perspicace – dû plus à des raisons de politique intérieure qu’aux difficultés rencontrées (révoltes germaniques et illyriennes) – et le repli sur le Rhin et le Danube ordonné par Tibère, son successeur, constituèrent le tournant décisif de toute l’histoire stratégique romaine, car c’est sur ce front, entre mer du Nord et mer Noire, qu’allait se décider le destin de l’Empire et, par suite, de l’Europe. Cette décision, qui devait se révéler définitive, eut une double conséquence : d’une part, elle entraîna le retour, sur un mode élargi, à l’empire méditerranéen, caractérisé par un manque de profondeur stratégique sur le théâtre européen, et, d’autre part, elle redonna, par contrecoup et comme sous la République, la priorité à l’Orient et à ses mirages. Ce choix équivalait à une faute géopolitique capitale dont, aujourd’hui encore, la portée historique semble échapper autant aux historiens qu’à Stemmelen, qui écrit benoîtement que « Julien, comme bien avant lui Trajan ou Septime Sévère, avait compris que l’Orient pourrait redonner à l’empire romain une raison d’être et une identité collective » (p. 163).

 

Aussi, s’il n’y eut manifestement pas progression linéaire mais basculement du monde traditionnel vers l’ordre nouveau, la raison première en fut, selon toute apparence, la conjonction fatale entre les fragilités internes du régime impérial et une configuration géopolitique au plus haut point défavorable. La crise, déjà latente depuis la fin du IIe siècle, atteint son maximum au cours du IIIe, surtout durant les cinquante années qui s’écoulent de l’assassinat d’Alexandre Sévère (235) à la proclamation de Dioclétien (284). L’Empire est alors confronté à des attaques de grande ampleur simultanément sur plusieurs fronts. À l’est, sur le plateau iranien, la dynastie parthe déclinante cède la place à celle, beaucoup plus agressive, des Sassanides, lesquels se réclament de l’héritage des Achéménides, jadis vaincus par Alexandre le Grand ; en clair, ils revendiquent tout l’Orient romain et percent les défenses de celui-ci jusqu’à la Méditerranée. Au sud, les nomades du désert africain multiplient les razzias. Enfin, les peuples germaniques et leurs alliés s’ébranlent sur un front allant de la mer du Nord à la mer Noire, et lancent une multitudes de raids sans cesse renouvelés sur les provinces européennes de l’Empire : bientôt l’Espagne, l’Italie, la Grèce et même l’Asie Mineure sont touchées. La profonde dénivellation culturelle séparant l’Europe romaine des « Barbares » avait été l’occasion pour ces derniers de se mettre à l’école de la civilisation romaine, tout comme il l’avaient fait, jadis, à celle des Celtes laténiens. L’archéologie révèle aujourd’hui l’ampleur des influences exercées par Rome sur ses voisins du Nord – à travers une diplomatie active, un commerce téléguidé, un recrutement assidu de mercenaires et un transfert étonnant de richesses et de technologies. Le résultat fut une militarisation et une organisation croissante des sociétés germaniques, dont les liens gentilices furent de plus en plus doublés par des structures politico-guerrières héritées des Celtes d’Europe centrale et perfectionnées au contact de la machinerie militaire romaine, celles des comitatus (all. Gefolgschaften) vouant, par serment, de grandes compagnies à des chefs de guerre entreprenants, capables de mener des actions prédatrices et de redistribuer ensuite le butin accumulé.

 

Sous cette formidable pression, le système défensif romain fut débordé et le transfert répété de troupes du front européen vers l’Orient entraîna la ruée toujours renouvelée de véritables armées germaniques vers les richesses convoitées du Sud. Pillages, destructions, massacres et déportations de prisonniers ne se comptèrent plus ; les provinces européennes furent ainsi le plus durement touchées et c’est là qu’on peut voir se profiler, à des degrés variables, le plus d’impacts économiques et sociaux. Le paroxysme fut atteint en 260, lorsque la défaite et la capture de l’empereur Valérien par les Perses entraîna la sécession de pans entiers de l’Empire, contraints de prendre acte de la défaillance du pouvoir central et d’assurer eux-mêmes leur défense. Les pronunciamientos et les usurpations, autant que les guerres internes et externes, consacrèrent le rôle démesuré des armées et achevèrent ainsi de désorganiser l’État. Celui-ci, en la personne des « empereurs-soldats », n’eut alors de cesse de se trouver une nouvelle légitimation capable de mobiliser les forces nécessaires à la reconquista et à la restauration de l’Empire. C’est dans ce contexte de chaos à peine maîtrisé que se place la totale refonte des institutions tentée par Dioclétien, encore placée sous les auspices de la religion romaine traditionnelle, et qui devait aboutir à l’éphémère système tétrarchique. C’est toujours dans ce contexte que le rebelle Constantin cherchera à imposer son pouvoir, cette fois, selon Stemmelen, en s’appuyant sur un tout nouveau parti de possédants et dans un esprit révolutionnaire implacable et sans scrupules que perpétueront ses successeurs. Jésus dit le « Christ », l’icône du nouveau régime, n’avait-il pas été explicite, en son temps, lorsqu’il déclarait sans ambages : « Quant à mes ennemis, ceux qui n’ont pas voulu que je règne sur eux, amenez-les ici, et égorgez-les en ma présence » (Luc, 19, 27).

 

Conclusion : l’Histoire officielle mérite, à maints égards, une révision radicale. Les « racines chrétiennes de l’Europe », dont on nous rabat les oreilles, constituent un mensonge absolu : depuis quand des racines se trouvent-elles si haut sur l’arbre ? La christianisation fut un accident tardif de l’histoire européenne. Celle-ci plonge ses vraies racines bien plus loin, dans un passé fabuleux dont le Parthénon, les mégalithes et la grotte Chauvet ne sont que des étapes parmi tant d’autres. C’est en cela qu’il faut saluer le bel effort de Stemmelen : « La religion des Seigneurs » est un essai et, comme tel, l’ouvrage n’est pas exempt d’objections critiques, mais il n’en demeure pas moins un livre documenté et stimulant pour la discussion, d’autant que l’importance de son sujet n’est pas à démontrer.

Willy Fréson, juin 2011.

willy.freson@hotmail.com

lundi, 31 janvier 2011

La religione solare nell'impero romano

La religione solare nell’impero romano

Autore: Giovanni Pellegrino

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

In questo articolo prenderemo in considerazione l’importanza rivestita dalla religione solare nell’impero romano a partire dall’introduzione del culto solare da parte di Elagabalo, avvenuta nel 218.

Nel III ancor più nel IV secolo nell’universo pagano romano esistevano diverse correnti di pensiero in assoluto contrasto tra di loro. Come abbiamo messo in evidenza in due nostri libri, ovvero Il neopaganesimo nella società moderna ed Il ritorno del paganesimo questa conflittualità esistente nel mondo pagano nell’età imperiale favorì senza dubbio la vittoria del cristianesimo sul paganesimo. Senza dubbio la causa più importante che determinò nell’universo pagano romano la formazione di tali correnti in aperto conflitto tra loro fu la crisi della religione politeistica tradizionale.

Premesso ciò torniamo ad occuparci della religione del “Sol Invictus” che era una divinità originaria dell’Oriente particolarmente venerata in Siria: nel III e nel IV secolo diverse religioni orientali fecero il loro ingresso nell’impero romano. La religione solare fu introdotta a Roma nel 218 dal giovanissimo imperatore Elagabalo che decise che il dio solare, venerato nella sua patria, diventasse una divinità onnipotente alla quale avrebbero dovuto assoggettarsi tutti gli altri dei della tradizionale religione romana, ivi compreso Giove. Il tentativo di Elagabalo, già di per se stesso prematuro ed anacronistico, venne inoltre condotto senza nessuna prudenza e senza il minimo rispetto della mentalità e dei costumi socio-religiosi romani. Per tali ragioni esso causò una violenta reazione nell’impero, in quanto profanava i simboli più sacri della tradizione religiosa romana.

Alla fine i romani eliminarono in poco tempo sia l’imperatore Elagabalo sia il suo dio solare di origine siriana. Tale reazione del popolo romano indusse il successore di Elagabalo, ovvero suo cugino Alessandro, a tralasciare in tutto il territorio dell’impero qualsiasi rito che riguardasse la divinità solare, sebbene questa avesse grande importanza presso tutti i membri della famiglia imperiale.

Tuttavia, poco dopo nel paganesimo orientale ebbe grande vigore la riflessione teologica sulla divinità solare. La nuova teologia solare divenne ancora più raffinata a partire dalla metà del III secolo, ricollegandosi a concezioni sempre più chiaramente monoteizzanti. Nella nuova teologia solare Helios acquistò la sua definitiva dimensione, che rimarrà tale anche nel tardo paganesimo. In tali riflessioni la divinità solare era sempre la più importante delle divinità, ma veniva subordinata all’Uno, la somma divinità dei filosofi neoplatonici, che affidava a Helios, come ad un demiurgo, il controllo di tutte le parti dell’universo.

La creazione teologica di un principio universale di tipo monoteizzante suscitò grande interesse nella società dell’epoca. Infatti la teologia solare non solo interpretava in maniera efficace sul piano religioso molte delle più importanti esigenze di quel periodo storico ma diventava anche causa di rilevanti conseguenze in ambito politico, in un’era storica nella quale la dimensione religiosa e quella politica erano strettamente collegate. In questo periodo della storia dell’impero romano la già avvenuta trasformazione dello stato romano in una moltitudine di popoli differenti tra loro per costumi, tradizioni, sistemi politici provocò come importantissima conseguenza sul piano politico una forte conflittualità tra imperatore e senato: la romanizzazione spesso poco efficace e superficiale delle province di recente conquista faceva sì che l’impero dovesse temere non solo il conflitto con i nemici esterni ma anche e soprattutto il conflitto permanente che si sviluppava all’interno dei territori dell’impero.

Considerata sotto questo aspetto, la crisi economica e sociale del terzo secolo fu in gran parte conseguenza dello scontro tra due opposte ideologie, l’una conservatrice tendente a restaurare nell’impero i valori tradizionali della “romanitas”, l’altra modernizzante tendente a dare importanza nell’impero romano a tradizioni religiose, sociali, politiche e culturali che erano in aperto conflitto con gli ideali della romanizzazione. Questo conflitto ideologico -culturale ebbe notevoli conseguenze sul piano politico poiché secondo l’ideologia conservatrice l’imperatore doveva essere scelto secondo il principio dell’adozione del migliore mentre secondo l’altra ideologia l’imperatore doveva essere scelto secondo i criteri di una stabile monarchia ereditaria.

Questo conflitto ideologico, culturale e politico divenne particolarmente forte dopo l’età di Marco Aurelio. Dopo il regno di tale imperatore entrò in crisi il principio dell’adozione del migliore e si affermò sempre più il principio della monarchia ereditaria, che presentava maggiori garanzie di stabilità e continuità rispetto all’altro principio. Anche negli ambienti intellettuali pagani si affermò sempre più il principio della monarchia ereditaria e si comprese che tale ideale politico poteva affermarsi con maggiore facilità se avesse avuto il supporto di una religione adatta a tale scopo. Proprio la religione solare venne considerata negli ambienti intellettuali pagani la più adatta a sostenere questo nuovo tipo di ideologia politica. In sintesi l’imperatore veniva considerato come una persona che godeva dell’appoggio del dio solare, che forniva il suo appoggio anche a tutti i membri della famiglia imperiale. Prendendo le mosse dalle concezioni astrologiche dominanti in quel periodo storico, la religione solare divenne un ottimo supporto per la monarchia ereditaria: tali concezioni astrologiche partivano dal presupposto che le anime preesistenti nell’empireo, allorquando si abbassavano verso la Terra per animare i corpi cui erano destinate, attraversavano la sfera dei pianeti e ne ricevevano determinate qualità. Partendo da tali concezioni astrologiche si affermò la convinzione che il Sole, re degli astri, era egli stesso il padrone del destino degli imperatori, poiché Helios dava a quelle persone che aveva scelto come imperatori la virtù dell’invincibilità, e inoltre li assisteva continuamente nella loro opera di governo proprio come un compagno ed un protettore personale. L’imperatore era perciò legato ad Helios da un rapporto di intima comunione e ne costituiva in qualche modo l’incarnazione sulla Terra: egli era pertanto imperatore per diritto di nascita, perché fin dalla sua venuta al mondo gli astri lo avevano destinato a diventare imperatore (si noti come il determinismo astrologico giocava un ruolo importantissimo nella religione solare non solo per l’imperatore ma per tutti gli esseri umani dal più potente al più umile). L’imperatore, che secondo la religione solare era disceso dal cielo prima di diventare quello che era, dopo la morte risaliva in cielo per vivere in eterno con gli dei; inoltre molti teologi della religione solare sostenevano che l’imperatore dopo la morte fosse portato in cielo dal Sole in persona nella sua quadriga risplendente.

Da quanto abbiamo detto appare evidente che la religione solare e le teorie politiche ad essa collegate davano una giustificazione religiosa al crescente assolutismo degli imperatori romani, ragion per cui molti di essi vennero attratti da tale religione. Per fare un esempio, nella seconda metà del III secolo l’imperatore Gallieno volle che venisse collocata a Roma una statua gigantesca del dio Helios.

Tuttavia fu soprattutto alcuni anni più tardi che il culto del “Sol Invictus” rivestì un ruolo importantissimo a Roma all’epoca degli imperatori illirici. Essi ritennero la religione solare per i suoi stessi intrinseci caratteri il supporto più efficace della monarchia ereditaria che volevano instaurare. Dobbiamo dire che dal punto di vista storico-sociale e politico tali imperatori restaurarono l’unità politica e militare dell’impero romano ed inoltre riuscirono a garantire la pace sociale promuovendo la conciliazione tra le necessità economiche delle varie classi. La religione solare raggiunse il suo apogeo nell’impero romano nel 274 quando Aureliano proclamò il “Deus Sol Invictus” la divinità ufficiale dell’impero e in suo onore costruì a Roma un tempio di straordinaria bellezza, al cui servizio fu preposto un apposito collegio di sacerdoti che presero il nome di “pontifices Dei Solis”. Inoltre molti storici sostengono che in quel periodo la religione solare era ufficialmente imposta ai soldati romani nonché ai capi delle legioni.

Anche i successori di Aureliano continuarono a proteggere ed appoggiare la religione solare. Tuttavia le cose cambiarono radicalmente quando salì al trono Diocleziano. Infatti tale imperatore si prepose come scopo principale del suo regno la restaurazione della romanitas. Nell’ambito di tale restaurazione Diocleziano attribuì grande importanza alla religione tradizionale romana. Diocleziano attribuì grande importanza al culto delle divinità classiche quali Marte, Mercurio, Pallade, Giove ed Ercole. Egli inoltre perseguitò con grande durezza i cristiani, ritenendoli dei pericolosi nemici degli ideali e della religione tradizionale del popolo romano. Per questi motivi la persecuzione voluta da Diocleziano fu una delle più dure della storia del cristianesimo: moltissimi cristiani vennero uccisi, a cominciare da quelli che rivestivano ruoli importanti nell’impero.

Diocleziano costituì anche un sistema di governo che prese il nome di tetrarchia, nel quale il potere sovrano era affidato a quattro persone, ovvero due Augusti e due Cesari. In tale sistema di governo la successione veniva assicurata non per diritto di nascita ma attraverso il tradizionale sistema dell’adozione del migliore. Da quanto abbiamo detto è facile comprendere che l’impero di Diocleziano trovava il suo fondamento etico, politico e religioso non nella religione solare ma nelle divinità della religione tradizionale romana. Tuttavia tutti gli sforzi di Diocleziano di restaurare la romanitas e di far ritornare l’impero romano ai suoi antichi splendori fallirono, tanto che Diocleziano si ritirò amareggiato e deluso a vita privata e non ne volle più sapere di riprendere il suo posto nella tetrarchia.

Dopo il ritiro di Diocleziano dalla scena politica romana ricominciarono le guerre civili originate dai conflitti tra i tetrarchi ed il principio dell’ereditarietà del potere imperiale tornò ad affermarsi e con esso tornò in auge la religione solare. Costantino in gioventù fu un fervente adepto della religione solare, anche perché suo padre, verso il quale il futuro imperatore provò sempre un’ammirazione assoluta ed incondizionata, era a sua volta un convinto adepto del dio Helios. Nella biografia di Costantino scritta da un autore anonimo si sostiene che nel 310 a Costantino sarebbe apparso il dio solare mentre il futuro imperatore era intento a pregare in Gallia in un tempio dedicato alla divinità solare.

Molto complessa da interpretare e da comprendere è la politica religiosa instaurata da Costantino dopo la sua conversione al cristianesimo (Costantino abbandonò la religione solare e si convertì al cristianesimo poiché prima della battaglia di Ponte Milvio, nella quale egli sconfisse Massenzio, gli apparve in cielo una croce. Costantino ordinò che la croce fosse posta sullo scudo di tutti i suoi soldati, in quanto era convinto che in tal modo avrebbe sconfitto Massenzio, conquistando il potere imperiale. Dopo aver sconfitto Massenzio Costantino si convertì al cristianesimo). Tuttavia nessuno può negare che la politica religiosa di Costantino fu dominata dal sincretismo religioso, non solo dopo la vittoria di Ponte Milvio su Massenzio, ma anche dopo che Costantino sconfisse Licinio diventando l’unico imperatore romano (mentre in precedenza Costantino governava la parte occidentale dell’impero e Licinio quella orientale).

Gli storici si sono chiesti come è possibile spiegare il persistente sincretismo religioso di Costantino, pur considerandone sincera la conversione al cristianesimo. A nostro avviso è possibile solo se si tiene presente che la maggior parte dei sudditi di Costantino erano pagani, mentre i cristiani costituivano una minoranza nella popolazione dell’impero. Inoltre i cristiani erano una minoranza quasi totalmente incapace di gestire il potere, poiché Diocleziano, come detto in precedenza, aveva fatto uccidere la maggior parte dei cristiani che avevano qualsiasi tipo di potere.

Nella parte finale di questo articolo cercheremo di dimostrare due cose: in primo luogo che non è corretto sostenere che Costantino si sia convertito al cristianesimo per un puro calcolo politico (in tal caso Costantino dovrebbe essere considerato un politico molto scadente, cosa molto lontana dalla realtà); in secondo luogo che per salvare la vita e il trono Costantino non poteva far altro che una politica religiosa imperniata sul sincretismo, poiché la maggioranza dei suoi sudditi erano adepti o della religione solare o della religione tradizionale romana politeistica, e la scelta del sincretismo fu quindi dovuta a un calcolo politico.

La scelta di Costantino di convertirsi alla religione cristiana non fu calcolo politico per almeno due ragioni. In primo luogo i cristiani erano una minoranza della popolazione dell’impero romano (secondo la maggior parte degli storici costituivano poco meno del 10% della popolazione dell’impero), e per di più quasi totalmente priva di uomini dotati di potere; in secondo luogo Costantino non avrebbe abbandonato la religione solare per un puro calcolo politico, anche per rispetto della memoria di suo padre Costanzo Cloro, il quale non solo era un convinto adepto della religione solare ma aveva più volte invitato Costantino a non abbandonare mai il dio Helios; e dopo la morte eroica di Costanzo Cloro in Britannia l’ammirazione di Costantino verso il padre era aumentata considerevolmente.

Riteniamo opportuno dire qualcosa su Costanzo Cloro che deve essere considerato un buon generale ed un valente uomo politico. Egli rivestì il ruolo di Cesare nella tetrarchia di Diocleziano, poi dopo l’abdicazione di Diocleziano e Massimiano divenne Augusto insieme con Galerio. Costanzo Cloro dimostrò di essere un valoroso condottiero in quanto combatté diverse battaglie per difendere i confini dell’impero. Morì eroicamente in battaglia in Britannia dove si era recato per guidare una spedizione romana contro gli abitanti di quella provincia dell’impero.

Per quanto riguarda la decisione di Costantino di adottare una politica religiosa basata sul sincretismo dobbiamo dire che si trattò di un calcolo politico molto intelligente ed anche inevitabile. Dobbiamo tenere presente che al tempo di Costantino la maggior parte di coloro che facevano parte degli ambienti politici, militari ed intellettuali dell’impero romano erano adepti della religione solare, mentre tra le masse popolari e il proletariato erano prevalenti gli adepti della religione romana tradizionale. Se Costantino si fosse posto in contrasto contro la religione solare si sarebbe messo contro i suoi stessi soldati che lo ammiravano in maniera incondizionata, non solo perché erano in maggioranza adepti del dio Helios, ma anche perché erano stati in gran parte agli ordini di Costanzo Cloro.

D’altra parte se Costantino avesse dimostrato pubblicamente di disprezzare la tradizionale religione romana si sarebbe attirato l’odio delle masse popolari, a quel tempo molto turbolente e frustrate. Di conseguenza Costantino praticò un evidentissimo sincretismo religioso adottando simboli e comportamenti in linea a volte con la religione solare e a volte con la religione tradizionale romana. Inoltre pur essendosi convertito al cristianesimo nel 312 non si fece mai battezzare se non quando si trovava già sul letto di morte gravemente ammalato.

Dopo Costantino i suoi successori praticarono una politica religiosa sempre più filocristiana ed ostile al paganesimo fino a che la religione cristiana divenne la religione ufficiale dell’impero romano. Al declino progressivo del paganesimo non sfuggì neanche la religione solare, che divenne sempre meno importante anche negli ambienti dove aveva esercitato una notevole influenza al tempo di Costantino.

Chiudiamo questo articolo mettendo in evidenza che il paganesimo nel V secolo era quasi totalmente sparito negli ambienti urbani mentre continuava ad essere praticato negli ambienti rurali dove riti come la lustratio finalizzata ad aumentare la fertilità dei campi erano considerati così importanti dalla maggior parte dei contadini che a volte accadde che i cristiani che si rifiutavano di partecipare a tale rito subissero il martirio anche nel V secolo e all’inizio del VI secolo, come attestano alcune iscrizioni trovate in varie province dell’impero.

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Riferimenti bibliografici
G. Pellegrino, Il neopaganesimo nella società moderna, Edisud, Salerno, 2000.
G. Pellegrino, Il ritorno del paganesimo, New Grafic Service, Salerno, 2004.
M. Sordi, L’Impero Romano, Laterza, Bari-Roma, 2003.

samedi, 09 octobre 2010

Proverbes latins

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Citations et Sagesses latines

A bove ante, ab asino retro, a stulto undique caveto : Prends garde au bœuf par devant, à l'âne par derrière, à l'imbécile par tous les côtés

Absentem lædit, qui cum ebrio litigat : Celui qui se querelle avec un ivrogne frappe un absent

Abusus non tollit usum : L'abus n'exclut pas l'usage

Abyssus abyssum invocat : L'abîme appelle l'abîme (Psaume de David)

Ad augusta per angusta : Vers les sommets par des chemins étroits (La gloire ne s'acquiert pas facilement)

Ad impossibilia nemo tenetur : À l'impossible nul n'est tenu

Ægroto dum anima est, spes est : Tant que le malade a un souffle, il y a de l'espoir

Amicus certus in re incerta cernitur : C'est dans le malheur qu'on reconnaît ses amis

Aquila non capit muscas : L'aigle ne prend pas les mouches

Audaces fortuna juvat : La fortune sourit à ceux qui osent

Audi, vide, tace, si tu vis vivere : Écoute, observe, et tais-toi, si tu veux vivre

Avaro omnia desunt, inopi pauca, sapienti nihil : À l'avare, tout manque, au pauvre, peu, au sage, rien

Barba non facit philosophum : La barbe ne fait pas le philosophe (l'habit ne fait pas le moine)

Beati pauperes spiritu : Bienheureux les pauvres d'esprit (citation extraite du Sermon sur la montagne)

Beatus qui prodest quibus potest : Heureux qui vient se rendre utile à ceux qu'il peut aider

Bis dat, qui cito dat : Donner rapidement, c'est donner deux fois

Bis repetita placent : Ce qui est répété séduit Bis repetita non placent : Ce qui est répété deux fois ne séduit plus

Bene diagnoscitur, bene curatur : Bien diagnostiquer, c'est bien soigner

Bona valetudo melior est quam maximæ divitiæ : Une bonne santé vaut mieux que les plus grandes richesses

Canis sine dentibus vehementius latrat : Un chien sans dents aboie plus vigoureusement (chien qui aboie ne mord pas)

Carpe diem : Cueille le jour (mets à profit le jour présent ; Horace)

Caveat emptor : Que l'acheteur soit vigilant

Cave ne cadas : Prends garde à la chute

Cibi condimentum est fames : La faim est l'épice de tout plat

Citius, Altius, Fortius : Plus vite, plus haut, plus fort ! (il s'agit de la devise olympique)

Cogito ergo sum : Je pense donc je suis (Descartes)

Consuetudinis vis magna est : La force de l'habitude est grande

Consuetudo altera natura est : L'habitude est une seconde nature

Contra vim mortis non est medicamen in hortis : Il n'y a dans le jardin aucun remède à la puissance de la mort

Contraria contrariis curantur : Les contraires se guérissent par les contraires

Cuiusvis hominis est errare : Il appartient à tout homme de se tromper

Dat veniam corvis, vexat censura columbas : La censure pardonne aux corbeaux et poursuit les colombes (Juvénal)

De gustibus et coloribus, non disputandum : Des goûts et des couleurs, il ne faut pas discuter

De mortuis nihil nisi bene : Des morts, on ne doit parler qu'en bien

Divide et impera : Divise pour régner

Dolus an virtus quis in hoste requirat ? : Ruse ou courage, qu'importe contre l'ennemi ?

Ducunt volentem fata, nolentem trahunt : Le destin porte ceux qui l'acceptent et lynchent ceux qui le refusent

Dulce et decorum est pro patria mori : Il est doux et beau de mourir pour la patrie (Horace)

Dum spiro, spero : Tant que je respire, j'espère

Dura lex, sed lex : La loi est dure, mais c'est la loi

E fructu arbor cognoscitur : On connaît l'arbre par les fruits

Errare humanum est : L'erreur est humaine (Sénèque le Jeune)

Errare humanum est, sed perseverare diabolicum : Il est humain (dans la nature de l'homme) de se tromper, mais persévérer (dans l'erreur) est diabolique

Felix qui potuit rerum cognoscere causas : Heureux celui qui a pu pénétrer le fond des choses (Virgile)

Finis coronat opus : La fin justifie les moyens

Fortes fortuna juvat ou Audaces fortuna juvat : La fortune favorise les audacieux

Furor arma ministrat : La fureur fournit des armes

Gutta cavat lapidem non vi, sed sæpe cadendo : La goutte fait un trou dans la pierre, pas par la force, mais en tombant souvent

Habent sua fata libelli : Les livres ont leur propre destin

Hodie mihi, cras tibi : Aujourd'hui pour moi, demain pour toi

Homines quod volunt credunt : Les hommes croient ce qu'ils veulent croire

Homo homini lupus est : L'homme est un loup pour l'homme

Homo sum, humani nihil a me alienum puto : Je suis un homme ; rien de ce qui est humain ne m'est étranger (Térence)

Horas non numero nisi serenas : Je ne compte les heures que si elles sont sereines

Ignorantia iuris nocet : L'ignorance du droit porte préjudice

Ignorantia legis non excusat : L'ignorance de la loi n'est pas une excuse

Ignoti nulla cupido : On ne désire pas ce qu'on ne connaît pas (vers d'Ovide)

In cauda venenum : Dans la queue le venin

In dubio pro reo : Le doute profite à l'accusé (en cas de doute, on acquitte)

In medio stat virtus : La vertu se tient au milieu... et non aux extrêmes

Inter arma silent leges : En temps de guerre, les lois sont muettes

Ira furor brevis est : La colère est une courte folie

Iurare in verba magistri : Jurer par les paroles du maître

Iuventus stultorum magister : La jeunesse est le professeur des fous

Labor omnia vincit improbus : Le travail opiniâtre vient à bout de tout

Laborare est orare : Travailler, c'est prier (devise bénédictine)

Lacrimis struit insidias cum femina plorat : Lorsque la femme pleure, elle tend un piège avec ses larmes (Caton)

Macte animo ! Generose puer, sic itur ad astra : Courage noble enfant ! C'est ainsi que l'on s'élève vers les étoiles.

Major e longinquo reverentia : De loin, l'admiration est plus grande

Medicus curat, natura sanat : Le médecin soigne, la nature guérit

Memento mori : Souviens-toi que tu es mortel ou souviens-toi que tu mourras

Memento audere semper : Souviens toi de toujours essayer/oser

Memento quia pulvis es : Souviens-toi que tu es poussière

Mens sana in corpore sano : Un esprit sain dans un corps sain (Juvénal)

Multi sunt vocati, pauci vero electi : Beaucoup d'appelés, mais peu d'élus

Mutatis mutandis : En changeant ce qui doit être changé ou en faisant les changements nécessaires

Natura abhorret a vacuo : La nature a horreur du vide

Nemo auditur propriam turpidudinem allegans : Nul ne peut se prévaloir de sa propre turpitude

Nemo censetur ignorare legem : Nul n'est censé ignorer la loi

Nemo judex in causa sua : Nul ne peut être à la fois juge et partie

Neque ignorare medicum oportet quæ sit ægri natura : Il ne faut pas que le médecin ignore quelle est la nature de la maladie

Nihil lacrima citius arescit : Rien ne sèche plus vite qu'une larme

Nil novi sub sole : Rien de nouveau sous le soleil

Nil sine numini : Il n'y a rien sans la volonté des dieux

Nomen est omen : Le nom est un présage

Non nobis domine, non nobis nomine sed tuo da gloriam : Non pour nous Seigneur, non pour nous, mais en votre nom et pour votre gloire

Non omnia possumus omnes : Tous ne peuvent pas tout

Non scholæ, sed vitæ discimus : Nous n'apprenons pas pour l'école mais pour la vie

Non ut edam vivo, sed ut vivam edo : Je ne vis pas pour manger, mais je mange pour vivre

Non vestimentum virum ornat, sed vir vestimentum : Ce n'est pas l'habit qui embellit l'homme, mais l'homme qui embellit l'habit

Non vini vi no, sed vi no aquæ : Je ne nage pas grâce au vin, je nage grâce à l'eau (Jeu de mots)

Nondum amabam, et amare amabam : Je n'aimais pas encore, pourtant je brûlais d'envie d'aimer

Nosce te ipsum : Connais toi toi-même !

Nulla poena sine lege : Nulle peine sans loi

Nulla regula sine exceptione : Pas de règle sans exception

O tempora, o mores ! Ô temps, ô mœurs ! (Cicéron) : Autres temps, autres mœurs

Oculi plus vident quam oculus : Plusieurs yeux voient mieux qu'un seul

Oculos habent et non videbunt : Ils ont des yeux mais ne voient pas

Omne ignotum pro terribili : Tout danger inconnu est terrible

Omnes homines sibi sanitatem cupiunt, sæpe autem omnia, quæ valetudini contraria sunt, faciunt : Tous les hommes désirent leur propre santé mais ils agissent souvent contre elle

Omnes vulnerant, ultima necat : Les heures blessent toutes, mais la dernière tue

Omnia mea mecum porto : Je transporte avec moi tous mes biens

Omnia vincit amor : L'amour triomphe de tout Omnibus viis Romam pervenitur : Tous les chemins mènent à Rome

Omnis homo mendax : Tout homme est menteur

Omnium artium medicina nobilissima est : De tout les arts, la médecine est le plus noble

Optimum medicamentum quies est : Le meilleur médicament est le repos

Pax melior est quam iustissimum bellum : La paix est meilleure que la plus juste des guerres

Pecunia non olet : L'argent n'a pas d'odeur (Vespasien)

Plenus venter non studet libenter : À plein ventre l'étude n'entre

Plures crapula quam gladius perdidit : L'ivresse a causé la perte de plus de gens que le glaive

Post cenam non stare sed mille passus meare : Après dîner ne reste pas, mais va flâner mille pas

Præsente medico nihil nocet : Quand le médecin est là, pas de danger

Prævenire melius est quam præveniri : Précéder vaut mieux que d'être précédé

Primus inter pares : Le premier parmi ses pairs

Qualis pater, talis filius : Tel père, tel fils

Qui nescit dissimulare, nescit regnare : Qui ne sait dissimuler, ne sait régner

Qui rogat, non errat : Poser des questions n'est pas une erreur

Qui scribit, bis legit : Celui qui écrit lit deux fois

Qui tacet, consentire videtur : Qui ne dit mot semble consentir

Quia pulvis es et in pulverem reverteris : Parce que tu es poussière et que tu retourneras à la poussière

Quidquid agis, prudenter agas, et respice finem ! : Quoi que tu fasses, fais-le avec prudence, sans perdre de vue la fin

Quidquid discis, tibi discis : Quoi que tu apprennes, tu l'apprends pour toi-même

Quis custodiet ipsos custodes ? : Qui gardera les gardiens ? (Juvénal)

Quo fata ferunt : Là où les destins l'emportent

Quod erat demonstrandum (Q.E.D.) : Ce qu'il fallait démontrer (CQFD) (Ponctue la fin d'une démonstration.)

Quod licet Iovis, non licet bovis : Ce qui est permis à Jupiter n'est pas permis au bœuf

Quod medicina aliis, aliis est acre venenum : Ce qui est un remède pour certains est poison violent pour d'autres

Quot capita, tot sententiæ : Autant d'avis différents que d'hommes

Reddite ergo quæ Cæsaris sunt Cæsari et quæ Dei sunt Deo : Rendez donc à César ce qui est à César et à Dieu ce qui est à Dieu

Repetitio est mater studiorum : La répétition est la mère des études

Requiescat in pace (R.I.P.) : Qu'il repose en paix

Sæpe morborum gravium exitus incerti sunt : Souvent, l'issue des maladies graves est incertaine

Salus ægroti suprema lex : Le bien-être du malade, voilà la loi suprême

Sapientia est potentia : La sagesse est pouvoir

Si napo leo viveret, hominem non esset : Si le lion vivait de navets il ne mangerait pas l'homme

Si tacuisses, philosophus mansisses : Si tu t'étais tu, tu serais resté un philosophe

Si vis pacem, para bellum : Si tu veux la paix, prépare la guerre

Si vis pacem, para iustitiam : Si tu veux la paix, prépare la justice

Sine labore non erit panis in ore : Sans travail il n'y aura pas de pain dans ta bouche, ou pour conserver le jeu de mots : Sans boulot, pas de fricot

Solem lucerna non ostenderent : On ne montre pas le soleil avec une lanterne (pour montrer l'évidence d'une chose)

Spoliatis arma supersunt : À ceux qui ont été dépouillés, une ressource reste : les armes

Tarde venientibus ossa : Pour les retardataires, des os. (se dit en parlant de ceux qui arrivent en retard à un repas)

Tempora mutantur et nos mutamur in illis : Le temps bouge, nous bougeons avec lui

Testis unus, testis nullus : Un seul témoin, pas de témoin

Ubi bene, ibi patria : La patrie est là où l'on se sent bien

Ubi concordia, ibi victoria : Là où il y a concorde, il y a victoire

Ubi lex non distinguit, non distinguere debemus : Là où la loi ne distingue pas, il ne faut pas distinguer

Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia : Là où tu seras Gaïus, je serai Gaïa (formule de fidélité dite par les époux romains lors du mariage)

Ultima ratio regum : Le dernier argument des rois (devise inscrite sur les canons par ordre du Cardinal de Richelieu)

Ultra posse nemo obligatur : À l'impossible nul n'est tenu

Unum castigabis, centum emendabis : Si tu réprimes une erreur, tu en corrigeras cent

Usus magister est optimus : L'expérience [ou la pratique] est le meilleur maître

Ut ameris, amabilis esto : Pour être aimé, sois aimable

Ut sis nocte levis, sit cena brevis : Si tu veux passer une bonne nuit, ne dîne pas longuement

Vade retro satana : Retire-toi, Satan !

Vanitas vanitatum et omnia vanitas : Vanité des vanités, tout est vanité (Cri de l'Écclésiaste)

Veni vidi vici : Je suis venu, j'ai vu, j'ai vaincu (Phrase de Jules César)

Verba docent, exempla trahunt : Les mots enseignent, les exemples entraînent

Verba volant, scripta manent : Les paroles s'envolent, les écrits restent

Veritas odium parit : La franchise engendre la haine (équivaut à l'actuel « Toute vérité n'est pas bonne à dire »)

Veritas odium parit, obsequium amicos : La franchise crée des ennemis, la flatterie des amis

Victrix causa diis placuit, sed victa Catoni : La cause du vainqueur a séduit les dieux, mais celle du vaincu a séduit Caton (Lucain, Pharsale, I, 128)

Vide supra : Voir plus haut

Video meliora proboque deteriora sequor : Je vois le bien, je l'aime et je fais le mal

Vinum aqua miscere : Mettre de l'eau dans son vin

Virtus post nummos : La vertu après l'argent Vox populi vox dei : La voix du peuple est la voix de Dieu

V.S.L.M abréviation de « Votum Solvit Libens Merito » : Il s'est acquité de son vœu, de bon gré, comme il se doit.

Vulnerant omnes, ultima necat : Toutes blessent, la dernière tue (adage sur les cadrans solaires)" 

 

Proverbes latins

mercredi, 10 mars 2010

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

Les Germains contre Rome: cinq siècles de lutte ininterrompue

 

par Konrad HÖFINGER

 

arminius.jpgLes sources écrites majeures du monde antique sont romaines, rédigées en latin. Les textes nous livrent donc une vision romaine des cinq siècles de lutte qui ont opposé le long du Rhin, des limes et du Danube, les tribus germaniques à Rome. Konrad Höfinger, archéologue de l'école de Kossina, interroge les vestiges archéologiques pour tenter de voir l'histoire avec l'oeil de ces Germains, qui ont fini par vaincre. Ses conclusions: les tribus germaniques connaissaient une forme d'unité confédérale et ont toutes participé à la lutte, en fournissant hommes ou matériel. La stratégie de guerilla, de guerre d'usure, le long des frontières était planifiée en bonne et due forme, au départ d'un centre, située au milieu de la partie septentrionale de la Germanie libre. Nous reproduisons ci-dessus une première traduction française des conclusions que tire Konrad Höfinger après son enquête minutieuse.

 

Si nous résumons tous les faits et gestes du temps des Völkerwanderungen (migrations des peuples), nous constatons l'existence, sous des formes spécifiques, d'un Etat germanique, d'une culture germanique, renforcée par une conscience populaire cohérente.

 

1. Dès l'époque de César, c'est-à-dire dès leur première manifestation dans l'histoire, les Germains ont représenté une unité cohérente, opposée aux Romains; ceux-ci connaissaient les frontières germaniques non seulement celles de l'Ouest, le long du Rhin, mais aussi celles de l'Est.

2. La défense organisée par les Germains contre les attaques romaines au temps d'Auguste s'est déployée selon des plans cohérents, demeurés identiques pendant deux générations.

3. Après avoir repoussé les attaques romaines, les Germains ont fortifié la rive droite du Rhin et la rive gauche du Danube selon une stratégie cohérente et une tactique identique en tous points. Les appuis logistiques pour les troupes appelées à défendre cette ligne provenaient de toutes les régions de la Germanie antique.

4. Quand les Daces, sous la conduite de Decebalus, attaquent les Romains en l'an 100 de notre ère, les Quades passent à l'offensive sur le cours moyen du Danube et les Chattes attaquent le long du Rhin.

5. L'assaut lancé par les Quades et la Marcomans vers 160 a été entrepris simultanément aux tentatives des Alamans sur les bords du Rhin et des Goths sur le cours inférieur du Danube. Les troupes qui ont participé à ses manœuvres venaient de l'ensemble des pays germaniques.

6. A l'époque où se déclenche l'invasion gothique dans la région du Danube inférieur vers 250, les Alamans passent également à l'attaque et s'emparent des bastions romains entre Rhin et Danube.

7. A partir des premières années du IVième siècle, Rome s'arme de l'intérieur en vue d'emporter la décision finale contre les Germains. A partir de 350, les fortifications le long du Rhin et du Danube sont remises à neuf et des troupes, venues de tout l'Empire, y sont installées. Simultanément, sur le front germanique, on renforce aussi ses fortifications en tous points: ravitaillement, appuis, matériel et troupes proviennent, une nouvelle fois, de toute la Germanie, ce qu'attestent les sources historiques.

8. Sur aucun point du front, on ne trouve qu'une et une seule «tribu» (Stamm) ou un et un seul peuple (Volk), mais partout des représentants de toutes les régions germaniques.

9. Les attaques lancées par les Germains en 375 et 376 ne se sont pas seulement déclenchées avec une parfaite synchronisation, mais constituaient un ensemble de manœuvres militaires tactiquement justifiées, qui se complétaient les unes les autres, en chaque point du front. Le succès des Alamans en Alsace a ainsi conditionné la victoire gothique en Bessarabie.

10. La grande attaque, le long d'un front de plusieurs milliers de kilomètres, ne s'est pas effectuée en un coup mais à la suite de combats rudes et constants, qui ont parfois duré des années, ce qui implique une logistique et un apport en hommes rigoureusement planifiés.

11. Les combats isolés n'étaient pas engagés sans plan préalable, mais étaient mené avec une grande précision stratégique et avec clairvoyance, tant en ce qui concerne l'avance des troupes, la sécurisation des points enlevés et la chronométrie des manœuvres. Les sources romaines confirment ces faits par ailleurs.

12. Les événements qui se sont déroulés après la bataille d'Andrinople, entre 378 et 400, ont obligé l'Empereur Théodose à accepter un compromis avec l'ensemble des Germains. Ce compromis permettait à toutes les tribus germaniques, et non pas à une seule de ces tribus, d'occuper des territoires ayant été soumis à Rome.

13. La campagne menée par le Roi Alaric en Italie et la prise de Rome en 410, contrairement à l'acception encore courante, ne sont pas pensables comme des entreprises de pillage, perpétrées au gré des circonstances par une horde de barbares, mais bien plutôt comme un mouvement planifié de l'armée d'une grande puissance en territoire ennemi.

14. Ce ne sont pas seulement des Wisigoths qui ont marché sur Rome, mais, sous les ordres du «Général» Alaric, des représentants de toutes les régions de la Germanie.

15. L'occupation de l'Empire d'Occident s'est déroulée selon un plan d'ensemble unitaire; les diverses armées se sont mutuellement aidées au cours de l'opération.

16. L'armement et les manières de combattre de tous les Germains, le long du Rhin à l'Ouest, sur les rives de la Mer Noire à l'extrémité orientale du front, en Bretagne au Nord, ont été similaires et sont demeurées quasi identiques pendant tous les siècles qu'a duré cette longue guerre. Ils sont d'ailleurs restés les mêmes au cours des siècles suivants.

17. Enfin, la guerre qui a opposé Rome aux Germains a duré pendant quatre siècles complets, ce qui ne peut être possible qu'entre deux grandes unités politiques, égales en puissance. Cette longue guerre n'a pas été une suite d'escarmouches fortuites mais a provoqué, lentement, de façon constante, un renversement du jeu des forces: un accroissement de la puissance germanique et un déclin de la puissance romaine. Cette constance n'a été possible que parce qu'il existait une ferme volonté d'emporter la victoire chez les Germains; et cette volonté indique la présence implicite d'une forme d'unité et de conscience politiques.

 

Après la victoire germanique, à la fin du IVième siècle, se créent partout en Europe et en Afrique des Etats germaniques, qui, tous, furent édifiés selon les mêmes principes. Que ce soit en Bretagne avec les Angles, en Espagne avec les Alains, en Afrique avec les Vandales, en Gaule avec les Francs, en Italie avec les Goths ou les Lombards, toutes ces constructions étaient, sur les plans politique, économique et militaire, avec leurs avantages et leurs faiblesses, leur destin heureux ou malheureux, le produit d'une identité qu'on ne saurait méconnaître. Il saute aux yeux qu'il existait une spécificité propre à tous les Germains, comme on en rencontre que chez les peuples qui ont reçu une éducation solide au sein d'une culture bien typée, aux assises fermes et homogènes, si bien que leurs formes d'éducation politique et éthique accèdent à l'état de conscience selon un même mode, ciselé par les siècles. Nous avons toujours admiré, à juste titre d'ailleurs, l'homogénéité intérieure de la spécificité romaine, laquelle, en l'espace d'un millénaire, en tous les points du monde connu de l'époque et malgré les vicissitudes politiques mouvantes, est demeurée inchangée et, même, est restée inébranlable dans le déclin. Le monde germanique n'est pas moins admirable pour ce qui concerne l'unité, l'homogénéité et le caractère inébranlable de sa constance: dès qu'il est apparu sur la scène de l'histoire romaine, au Ier siècle avant notre ère, il est resté fidèle à lui-même et constant jusqu'à la fin de la «longue guerre».

 

Konrad HÖFINGER.

 

Konrad HÖFINGER, Germanen gegen Rom. Ein europäischer Schicksalskampf, Grabert-Verlag, Tübingen, 1986, 352 S., 32 Abb., DM 45.

    

samedi, 26 décembre 2009

Renseignement et espionnage dans la Rome antique

22510100061800L.gifRenseignement et espionnage dans la Rome antique

Les activités de renseignement font partie intégrante de l’art de gouverner et, sans elles, les Romains n’auraient pas pu édifier et protéger leur empire.

Même s’ils ne séparaient pas les différentes fonctions du renseignement entre activités civiles et militaires, il n’en demeure pas moins qu’une grande partie de leurs activités de renseignement ressemblaient aux nôtres et qu’il est possible d’utiliser le concept moderne de cycle du renseignement pour les décrire. L’éventail des activités concernées est assez large : collecte de renseignements, contre-espionnage, infiltration, opérations clandestines, utilisation de codes et de chiffres, et diverses techniques d’espionnage. Toutes ont laissé des traces littéraires, épigraphiques et archéologiques qu’il est possible de suivre en partie.

Rose Mary Sheldon retrace le développement des méthodes de renseignement romaines des débuts de la République jusqu’au règne de Dioclétien (284-305 après J.-C.), d’une forme embryonnaire et souvent entachée d’amateurisme jusqu’au système très élaboré d’Auguste et de ses successeurs. L’ouvrage est rythmé tant par des chapitres consacrés à l’étude de certains des échecs romains que par l’examen des réseaux de communication, des signaux de transmission, des activités d’espionnage, des opérations militaires et de la politique frontalière.

C’est pourquoi les questions plus larges soulevées dans ce livre sont d’une pertinence immédiate pour le présent : bien que les méthodes de renseignement aient radicalement changé avec l’avènement de la technologie moderne, les principes restent étonnamment similaires. Les questions politiques essentielles portant sur la place des services de renseignement dans une démocratie et une république plongent leurs racines dans le monde gréco-romain.

Publication : novembre 2009, 528 pages,35

Via Theatrum Belli [1]

Disponible sur Amazon [2]


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mercredi, 12 août 2009

Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

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Une nouvelle approche de la tourmente du III° siècle

« Dans les temps de crise que nous vivons, en ce début d’année 2009, il est agréable de se dire qu’à un moment de leur histoire des hommes ont été heureux… » Nous sommes au IIe siècle. Les Antonins ont fait de Rome une puissance insurpassable. La stabilité politique des institutions d’essence monarchique assure aux peuples de l’Empire, au moins jusqu’à Commode (180-192), sécurité et prospérité. La « Pax romana » règne partout. Elle dispose d’un instrument de fer : de 350.00 à 400.000 soldats, dont quelques 150.000 légionnaires postés pour l’essentiel aux frontières, face aux Barbares. Et c’est pourtant en pleine gloire, au faîte de sa puissance, que l’Empire romain va être touché au cœur.

Crise militaire, crise globale

La crise du monde romain au IIIe siècle est avant tout militaire. C’est l’affaiblissement de l’institution centrale de l’empire qui provoque en chaîne, et se nourrit par la même occasion, des crises politique, économique, financière, sociale et même religieuse – la « quête de sens » étant une constante des périodes troublées. Si tous les historiens s’accordent sur cet enchaînement des causes et des conséquences, rares sont les chercheurs à avoir tenté d’expliquer « comment un corps aussi solidement bâti que l’armée romaine a pu recevoir des coups aussi violents, être secoué dans d’aussi terribles difficultés ». C’est à ce choc initial, cette matrice de toutes les crises, que s’attache Yann Le Bohec avec le talent, l’érudition et l’humour qu’on lui connaît. Son ouvrage, pour être savant, est passionnant parce qu’il s’agit d’une véritable enquête dont la victime – l’Empire romain – et les auteurs – Germains et Iraniens pour l’essentiel – sont connus, mais les faits trop souvent ignorés à force d’être considérés comme acquis, et donc secondaires.

En s’attachant à proposer « une explication militaire pour une crise militaire », jusque dans les soubresauts des nombreuses « guerres civiles » induites, Le Bohec renouvelle en profondeur notre vision de cette époque, et n’hésite pas au passage à bousculer quelques certitudes historiographiques trop facilement admises.

Surtout, Le Bohec va à l’essentiel. Il ausculte, assume et revendique la gravité de la crise étudiée en réhabilitant « les trois conceptions du temps, court, moyen et long » de l’enseignement de Braudel, « ainsi que les liens qui unissent l’histoire à la géographie ». Son ouvrage est donc politique. Parce que l’essence même du politique réside finalement dans les questions de défense, comme l’ont bien compris depuis des générations les historiens anglo-saxons et l’illustre plus près de nous De Gaulle : « Quand on ne veut pas se défendre, ou bien on est conquis par certains, ou bien ou est protégés par d’autres. De toute manière, on perd sa responsabilité politique… ».  Et parce que l’essence même du politique, parfaitement illustrée par Carl Schmitt cette fois, réside dans la désignation – et donc la connaissance – de l’ennemi. Et c’est l’apport principal de cette « armée romaine dans la tourmente » que de s’attacher aux ennemis de celle-ci, en soulignant leur nombre, leur diversité, la nouvelle puissance issue de leur vitalité démographique, de leurs systèmes d’alliance (Quinquegentanei en Afrique, Pictes en Ecosse, Francs, Alamans et Goths en Europe continentale), et des progrès accomplis sur le plan militaire surtout, dans les domaines de l’armement et de la tactique face à des légions dont l’apogée capacitaire est définitivement atteint sous Septime Sévère (193-211).

Quand l’histoire éclaire le présent

L’ouvrage de Le Bohec est ainsi d’une criante actualité. Les analogies sont nombreuses avec les temps de confusions qui sont aussi les nôtres.

Il est certes tenant d’esquisser un parallèle entre les empires romain et étatsunien. Et il sera sans doute un jour daté que la fin de l’empire américain a débuté dans les villes d’Irak, comme autrefois l’empire romain dans les sables de Mésopotamie. « Rome ne s’interdisait jamais de passer à l’offensive, pour mener une guerre préventive ou de représailles, ou pour affaiblir un ennemi potentiel, ou encore tout simplement pour piller. Au cours du IIIe siècle, l’offensive n’eut jamais cours qu’en réaction contre une agression ; on ne connaît que des contre-offensives »…

Mais le choc du IIIe siècle reste, à l’image de l’Empire romain lui-même, une pièce maîtresse et indéfectible de l’histoire européenne. Il annonce les formidables mutations que vont affronter les peuples d’Europe, et les ruses dont l’Histoire aime à user : « Après avoir atteint le fond du gouffre, l’armée romaine a su s’en sortir. L’explication est sans doute double. Les ennemis sont devenus moins agressifs, parce qu’ils étaient fatigués de la guerre et parce que de nouveaux problèmes se posaient à eux, avec d’autres arrivées de barbares. L’armée romaine s’est mieux adaptée à la situation. Ce fut, si l’on en croit la critique, l’œuvre des empereurs illyriens ». La sortie de la crise est en effet attestée sous Dioclétien (284-305), mais l’Empire ne s’en remettra jamais. Au point de s’effondrer définitivement à peine un siècle et demi plus tard. La crise, aussi violente que profonde, apparaît dès lors comme une première alerte.

Une histoire à méditer. Parce que c’est la nôtre. Et que nous ne sommes qu’au IIe siècle…

GT
14/07/2009

Source: Polémia

©Polémia

L’armée romaine dans la tourmente. Une nouvelle approche de la crise du IIIe siècle, Yann Le Bohec, Editions du Rocher, collection L’Art de la Guerre, mars 2009, 315 p., 21 euros.

vendredi, 20 février 2009

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Tradizione: il segreto della grandezza di Roma

Ex: http://augustomovimento.blogspot.com/



Ci sono termini ed espressioni che hanno uno strano destino, soprattutto se si tratta di traduzioni. Una di queste è l’espressione latina “mos maiorum”. Purtroppo in ambito accademico i traduttori di opere greche e latine ci offrono spesso versioni letterali, orribili e – va detto! – “sbagliate”. Sbagliate non già sotto un aspetto prettamente semantico (la traduzione è, in fin dei conti, accettabile), ma perché non tengono conto di una più libera ma esatta equivalenza tra termini di lingue diverse e, soprattutto, eludono – per stanca e incolore prassi scientifico-accademica – il fattore estetico. Per rendere mos maiorum troverete, infatti, “usanze dei padri”, “costume degli antenati” e altre formulacce del genere. Al contrario, per tradurre esattamente il termine, esiste una e una precisa parola: Tradizione (in greco èthos). Che altro sono “i costumi dei padri” se non princìpi e valori verso i quali i membri di una comunità devono osservare venerazione ed emulazione? “Tradizione”. Punto.

Il mos maiorum è inoltre assolutamente necessario per comprendere veramente la Romanità: esso, infatti, era alla base e si manifestava in ogni aspetto (diritto, famiglia, politica, cultura, religione…) della vita comunitaria e privata dei cittadini romani.

Il diritto romano, anzitutto, fu da principio regolato unicamente dalla tradizione non scritta che gli avi trasmisero ai posteri: prima della codificazione delle leggi delle XII tavole non esisteva, infatti, legge (lex da lego, cioè che deve esser letta in quanto scritta). «La concezione romana rifiuta in linea di massima la codificazione e mostra una forte riluttanza nella emanazione di singole leggi. Il popolo del diritto non è il popolo della legge»: questa la celebre formula coniata da F. Schulz nei Prinzipien des römischen Rechts (Princìpi del Diritto romano). Da qui nasce, in ambito giuridico, la dicotomia/antitesi tra mos e lex, tra costume che viene dalla veneranda tradizione e la legge. Così Cicerone, nelle Catilinarie, invoca il mos maiorum contro la legge scritta per poter mettere a morte Catilina: secondo la Tradizione era possibile condannare a morte i nemici della Patria, non per le leges Valeriae-Semproniae che proibivano la pena capitale per un cittadino romano. Questo esempio mette in evidenza l’enorme potere che la Tradizione esercitava nel diritto romano, molto spesso superiore alla stessa legge.

La Tradizione era altresì fondamentale nella vita politica e, in particolar modo, per il Senato. I membri di quest’ultimo, infatti, erano i discendenti degli eroi che fecero grande Roma e, giacché secondo i Romani la virtus maiorum si trasmetteva di padre in figlio, la auctoritas e la legittimazione del potere dei senatori venivano direttamente dalla gloria dei loro antenati. Tale principio si manifestava al massimo grado nei funerali pubblici delle famiglie patrizie, in cui tutte le imagines degli antenati della gens (maschere di cera che riproducevano le fattezze degli avi) sfilavano in lunghi cortei che si concludevano con l’orazione celebrativa, nella quale si lodavano, oltre alle virtù del defunto, le gloriose gesta dei suoi progenitori. Era quindi obbligatorio per gli eredi delle grandi famiglie di Roma conoscere le imprese dei propri antenati, e l’educazione dei giovani nobili verteva eminentemente sulla trasmissione dei mores maiorum. È emblematica al riguardo l’immagine, lasciataci dalla letteratura antica, di Scipione Emiliano che ritrova vigore e propensione a grandiose gesta osservando le immagini dei suoi avi.

Ma tale culto della Tradizione non esisteva esclusivamente nelle autorevoli famiglie patrizie, ma era altresì venerata la gloria populi Romani, ossia la Tradizione comune a tutto il popolo di Roma.
Ogni cittadino romano ha dunque il dovere di mantenere e, possibilmente, di accrescere la gloria dei padri, praticando la via della virtus.

Parimenti in ambito militare e religioso il mos maiorum è un elemento inscindibile dall’essenza stessa della Romanità. Le virtù dei maiores, come ce le tramandano gli scrittori greci e romani, sono le seguenti:

- Fortitudo: capacità, coraggio;
- Fides: fedeltà (verso gli altri);
- Pietas: fedeltà (verso gli dèi, la Patria, la famiglia);
- Iustitia: senso della giustizia;
- Audacia: coraggio;
- Constantia: costanza;
- Magnitudo animi: nobiltà d’animo;
- Aequitas: equità;
- Probitas: probità;
- Auctoritas: autorità;
- Honestas: onestà;
- Temperantia: misura;
- Clementia: moderazione.

La tradizione romana si fondava, in ultima analisi, sugli exempla maiorum, ossia le eroiche gesta compiute dagli avi, le quali spingevano i giovani a rendere sempre più grande Roma: e questo proprio perché gli esempi di virtù degli antenati erano tali in quanto volti all’accrescimento della gloria dell’Urbe. Si capirà meglio, quindi, il motivo per il quale l’educazione dei fanciulli romani si basasse sugli exempla maiorum: non precetti ma esempi, giacché il precetto istruisce, ma è l’esempio che trascina e muove gli animi.

In conclusione, vediamo che sia gli antichi che i moderni ravvisarono nel culto della Tradizione (il mos maiorum) il segreto della grandezza di Roma; e tanto più i romani se ne discostavano, tanto più era lecito parlare di decadenza e degenerazione dei costumi.
Non a caso lo storico greco Polibio canta la gloria di Roma spiegando ai propri compatrioti che Roma ha conquistato il mondo grazie alle sue istituzioni e alla forza che le viene dall’osservanza della sua nobile Tradizione.

Ora, dunque, potremo comprendere più a fondo il celeberrimo verso del poeta Ennio che, scolpendo il suo esametro come solido marmo, cantò: Moribus antiquis res stat romana virisque, «Roma si fonda sulla Tradizione e sui suoi eroi»!